La tesi Tra realtà e mistero: l’immigrazione dalla Cina nell’empolese sui giornali locali esamina un arco di tempo di circa quindici anni (1993-2009) ed evidenzia come il linguaggio sia determinante nella creazione di stereotipi e diffidenza. E come sia raro che venga riportata la voce della comunità cinese.
L’ “invasione” cinese, così come viene rappresentata sui giornali, è un fenomeno con cui il territorio dell’empolese si confronta ormai da anni. Non è raro incontrare cittadini cinesi nel centro della città o in periferia, dove sono concentrate le loro aziende.
Spesso si parla di immigrati cinesi, sia in convegni e riunioni ad essa dedicati, sia in contesti più quotidiani e non istituzionali. Può accadere di ascoltare opinioni ostili sui cinesi, che hanno un profilo ben preciso nell’immaginario collettivo: lavorano notte e giorno, sono criminali legati alle “triadi” e non parlano mai con nessuno, quasi avessero qualcosa da nascondere.
Capita raramente di conoscere persone che hanno rapporti con gli immigrati cinesi o che sono interessate a farne la conoscenza. Molti si fermano all’immagine che ne viene data sui giornali locali, fidandosi di parole facilmente assimilabili, anche perché poche, sempre le stesse.
Partendo dallo studio dei quotidiani locali, si può quindi risalire a una fonte tra le più decisive delle immagini percepite come più rappresentative degli immigrati cinesi. Essendo il giornale un mezzo di comunicazione rivolto al grande pubblico, ha un grande peso nella formazione dell’immaginario collettivo. Credere ciecamente a ciò che viene scritto dai cronisti significa avere una visione distorta della realtà, che è molto più ricca e controversa di come viene presentata.
Quando si tratta di immigrazione cinese, attori e contesto si ripetono anno dopo anno. Si parla sempre di capannoni in cui molti cinesi lavorano e vivono in situazioni di povertà estrema, di condizioni igieniche precarie, di sfruttamento di manodopera clandestina e di “mafia gialla”. Questo è ciò che la società d’accoglienza conosce sui cinesi, attribuendo il loro modo di vivere ad una scelta culturale, non contestualizzata all’interno dell’esperienza migratoria.
Immigrati provenienti da Zhejiang e Fujian giungono nell’Empolese a partire dai primi anni Novanta. Da quel momento i quotidiani locali iniziano ad interessarsi al fenomeno. La curiosità per la novità, per una popolazione così diversa e lontana dalla propria, spinge i giornali di quegli anni a scrivere sempre più articoli sulla situazione dell’immigrazione cinese.
Il clima di diffidenza cresce nel tempo e, ad un certo punto, le notizie di maggiore interesse per quel che riguarda i cinesi sono le incursioni della polizia nelle loro aziende-abitazioni, in cui sfruttamento del lavoro minorile e condizioni igieniche precarie sembrano essere all’ordine del giorno.
Per comprendere l’atteggiamento dei giornali locali nei confronti degli immigrati cinesi dell’empolese dall’inizio del fenomeno fino ad oggi, sono stati analizzati alcuni articoli de “Il Tirreno” e “La Nazione” di Empoli riguardanti questo tema. In particolare, sono stati scelti tre periodi significativi ai fini della ricerca: i primi anni dell’immigrazione cinese nell’empolese (1993-1994), il 2001 e il 2009.
Il primo periodo è interessante per l’emergere delle prime dicerie e dei primi tentativi di riflessione sugli immigrati cinesi.
L’anno 2001 è interessante per verificare se è vero che, durante i periodi di elezione, si osserva un picco nella pubblicazione degli articoli sull’argomento.
Con il passare degli anni si nota come dagli spunti di riflessione degli inizi si giunga alla ripetitività delle notizie che, nell’ultimo periodo, sembrano essere standardizzate e seguire un unico schema.
L’analisi dei suddetti articoli non è di tipo quantitativo. Non si avvale dunque del conteggio delle occorrenze di singole parole chiave o di singoli temi per stabilire quali siano i più ricorrenti. L’analisi è invece di tipo qualitativo. Si parte quindi dall’analisi testuale di un articolo e si studiano le strategie testuali attraverso le quali il giornalista dà maggiore o minore rilievo ad una notizia rispetto ad un’altra.
Le strategie testuali, infatti, producono degli effetti su chi legge e il testo non è mai puramente informativo. Spesso tali strategie sono inconsce e inconsapevoli.
All’interno degli articoli presi in esame, sono stati individuati alcuni temi che sembrano contraddistinguere il discorso mediatico sull’immigrazione cinese a Empoli. È interessante notare come ognuno dei temi considerati nasca da un’iniziale curiosità per il fenomeno per poi entrare a far parte dell’immaginario collettivo e diventare elemento caratterizzante nella descrizione dell’immigrato cinese.
Uno degli elementi che, secondo la stampa locale di Empoli, caratterizzerebbero maggiormente gli immigrati cinesi è la loro “chiusura”, il loro rimanere in disparte e frequentare quasi esclusivamente connazionali.
Questa loro abitudine viene attribuita non ad una situazione sociale, ma a un presunto “carattere”, che come tale non sarebbe benvisto dalla popolazione autoctona. Spesso si leggono i comportamenti schivi e riservati dei cinesi presenti nel territorio come il desiderio di nascondere qualcosa o, comunque, la mancanza di volontà ad integrarsi nel tessuto sociale in cui vivono.
Il fenomeno sociale complesso viene quindi neutralizzato e una condizione spiegabile in termini situazionali viene letta in termini caratteriali. “Omertà” (“La Nazione”, Empoli, 18 settembre 1993), “silenzio” e contatti “intermittenti” con le forze dell’ordine sono le caratteristiche che contraddistinguono l’immigrazione cinese nell’Empolese a cui, a quanto sembra, conviene non parlare.
Gli immigrati cinesi sono poi spesso accusati di reati connessi al traffico di clandestini e all’impiego di manodopera irregolare (“La Nazione”, Empoli, 2 giugno 2009). In molti casi si nota la difficoltà che gli inquirenti affrontano quando si trovano ad indagare all’interno di una collettività considerata così chiusa e impenetrabile.
Prima di tutto si riscontrano particolari difficoltà linguistiche, che richiedono l’intervento di un interprete. Ma la lingua non è il solo ostacolo da superare. Accanto ad un interpretariato che avvicini le lingue, sarebbe necessaria una mediazione che renda una serie di atteggiamenti e comportamenti meno remoti.
Occorrono nuovi strumenti d’analisi alle forze dell’ordine per fare in modo che la criminalità cinese non rimanga un fenomeno sommerso e difficile da capire.
È importante soprattutto capire che gli immigrati cinesi non vivono isolati dal tessuto sociale, ma sono inseriti nella struttura economico-sociale che li accoglie. Sono quindi da evitare tutti gli automatismi nel giudicare atti criminosi compiuti da cinesi per ricondurli alle frange della “mafia gialla”.
Spesso, infatti, le organizzazioni criminali non sono collegate alle tradizionali “triadi” cinesi. Soprattutto negli ultimi anni, si tratta di gruppi di persone che si formano occasionalmente per arricchirsi intorno al business della criminalità. Tali strutture sono più agili e informali delle grandi organizzazioni, e si adattano meglio agli intrighi tra immigrati e società d’accoglienza.
È necessario sottolineare proprio come i rapporti fra immigrati e autoctoni agevolino la formazione di organizzazioni miste che si arricchiscono sfruttando le condizioni di illegalità da cui spesso i cittadini cinesi hanno difficoltà ad uscire tramite la vendita di falsi attestati di permesso di soggiorno, contratti di lavoro falsi a copertura del lavoro in nero e vendita di falsi contratti d’affitto.
Numerosissimi sono invece gli articoli di cronaca in cui si parla di “mafia gialla” o di “organizzazioni” che regolerebbero le vite degli immigrati cinesi. Quasi tutti gli episodi riguardanti cittadini cinesi sono collegati alla paura della “mafia cinese”. Molto spesso si parla di organizzazione mafiosa senza avere comprovate ragioni per farlo. Si tratta quasi sempre di allusioni oscure e presupposizioni minacciose, date per scontate nel lettore.
Valentina Pedone, in un suo contributo, mette in evidenza come, spesso, gli articoli che parlano di mafia gialla non citino le fonti. È interessante notare che, quando il giornalista più scrupoloso cita la sua fonte, le informazioni da questa fornite ridimensionano il problema quando non lo negano del tutto. Lo stereotipo è però talmente forte da non impedire a chi scrive di indugiare su termini come mafia, triade o criminalità organizzata.
L’abuso del termine “mafia” è dimostrato dal fatto che, spesso, gli articoli che usano questa parola nel titolo non trattano poi dell’argomento. Di “mafia gialla”, “triadi” e “boss” si inizia a parlare fin dal 1993, introducendo un tema che registrerà una vera e propria esplosione nel 2001 e che continuerà a turbare gli animi della popolazione autoctona di Empoli anche nel ventennio successivo.
Un’altra caratteristica attribuita agli immigrati di origine cinese e fortemente marcata nei media è la clandestinità. Il termine “clandestino”, usato spesso da giornali e televisione, alimenta l’aura di mistero e sospetto nei confronti di chi commette un’infrazione amministrativa, cioè si trova sul territorio italiano senza il necessario permesso di soggiorno.
Con la parola “clandestino” non si indica semplicemente “una persona che lavora in mezzo a noi”, ma “un infiltrato di nascosto per commettere chissà quale crimine”. Della parola “clandestino” si fa abuso nei giornali locali, esprimendo così un giudizio su chi si trova sul territorio dell’empolese per lavorare e non è in regola con il permesso di soggiorno, magari perché la legge italiana non gliene offre la possibilità. Il termine, con tutti i suoi derivati, viene utilizzato per tutto l’arco di tempo analizzato e subisce un consistente aumento delle occorrenze dal 2001 (“Il Tirreno”, Empoli, 14 aprile 2001), quando si legge addirittura sei volte all’interno dello stesso articolo (“La Nazione”, Empoli, 17 maggio 2001).
Al termine “clandestino” è legato il concetto di “schiavitù” (“Il Tirreno”, Empoli, 18 febbraio 1993) e di “turni di lavoro massacranti”, caratteristiche con cui spesso gli articoli di cronaca locale descrivono gli immigrati cinesi. La scarsa conoscenza delle dinamiche migratorie cinesi è all’origine dell’uso del termine “schiavitù”, che sostituisce in realtà un particolare accordo fra padrone ed operaio con cui, all’inizio dell’esperienza migratoria, si sigla la disposizione del secondo a lavorare per molte ore al giorno in modo da poter estinguere il debito del viaggio che gli ha permesso di raggiungere l’Italia e, in seguito, di poter intraprendere una carriera imprenditoriale in piena autonomia.
A delineare il ritratto mediatico dell’immigrato cinese sono anche gli epiteti che vengono usati come sinonimi di cittadini cinesi. Sovente fanno riferimento alle loro caratteristiche fisiche. Il più comune fra questi è “occhi a mandorla”, che richiama chiaramente una particolarità fisica orientale. Moltissime le occorrenze del termine a partire dagli articoli del 1993. Immancabile, poi, il riferimento al colore della pelle, storicamente “gialla”.
Dall’osservazione degli articoli di giornale si nota come una serie di realtà empiriche verificabili subiscano deformazioni anche pesanti e come si contribuisca così a costruire una realtà sociale con caratteristiche ben diverse dalla prima. Mentre la realtà empirica vede i cittadini cinesi nella loro varietà di esperienze personali, caratteri, idee e personalità, l’immagine che si costruisce loro attorno appiattisce e stigmatizza alcune loro caratteristiche.
Nei quotidiani, i cinesi diventano tutti subalterni alle strategie di una presunta “mafia gialla”, sfruttatori o sfruttati, coinvolti in qualche modo con le attività criminali. Gli stereotipi su questa popolazione sono talmente radicati che spingono a considerare i cittadini della Repubblica Popolare come un tutto unico, senza operare ulteriori diversificazioni.
Gli argomenti e le espressioni ripetuti ossessivamente all’interno dei giornali fanno in modo che venga trasmessa una sola immagine dei cinesi, che li vede lavorare “dalle dodici alle quattordici ore al giorno e non chiedono che di poter lavorare ancora, ai loro ritmi martellanti, che non conoscono né sabati, né domeniche, né altre feste” (“La Nazione”, Empoli, 24 novembre 1993).
Ci facciamo un’idea della collettività cinese attraverso le parole di chi, per la verità, non la conosce affatto. Rarissimi sono i casi in cui i cinesi sono chiamati a parlare di loro stessi, in pochi articoli viene dato spazio alle loro parole.
La realtà empirica è ben diversa da quella costruita sui giornali. È una dimensione in cui i cinesi sono imprenditori, operai, studenti, bambini, persone in regola con il permesso di soggiorno o in attesa di qualche “sanatoria” per uscire dalla “clandestinità”, sconveniente in primo luogo per loro stessi. In pochi conoscono a fondo questa realtà, che racchiude al suo interno molte caratteristiche diverse.
Rari i casi in controtendenza, in cui i giornali hanno accolto notizie e dibattiti dal diverso respiro rispetto a quelli che, tradizionalmente, riguardano i cinesi.