SINOLOGIE – Questioni di genere per immagini

In by Simone

La tesi, Il movimento femminista cinese e la rappresentazione delle donne nei manifesti degli anni ’30 della Repubblica popolare cinese, analizza le immagini di propaganda in un’ottica di genere. Durante il comunismo il ruolo della donna in Cina si è imposto senza però mai mettere in discussione quello dell’uomo.
Il lavoro è frutto di una ricerca condotta con un approccio trasversale: si vuole provare a dimostrare, attraverso un’analisi storica, sociologica, filosofica e di lettura delle immagini di propaganda in un’ottica di genere, come i tentativi di mettere in atto politiche di pari opportunità, in particolare negli anni della Repubblica Popolare Cinese, siano falliti su molti versanti. Se da una parte infatti è importante riconoscere i cambiamenti che hanno apportato nella vita delle donne rispetto al recente passato, dall’altra si ritiene altrettanto importante evidenziare dove e perché non abbiano funzionato. Al di là della retorica, si cercherà infatti di dimostrare come lo stesso Partito abbia riproposto sotto altre vesti la cultura patriarcale e si cercherà di capire in che modo questo sia avvenuto.

Nella prima parte si accenna alle fondamenta culturali del patriarcato cinese, che affondano le loro radici in un’interpretazione del pensiero cinese antico che ne ha fornito le basi ideologiche e ne ha costruito i modelli sociali di riferimento. Si procede poi con uno sguardo alla nascita e allo sviluppo del movimento femminista cinese, che compie i primi passi alla fine del XIX secolo, pur rappresentando in questo momento un cambiamento più potenziale che reale.

È all’inizio del XX secolo che comincia un’elaborazione critica del sistema e delle sue istituzioni e che il movimento avanza delle rivendicazioni che porteranno all’attuazione di alcune riforme e all’entrata delle donne nel processo economico-produttivo che le vedrà in prima linea nelle lotte operaie. Sul versante teorico si diffonde la convinzione che il superamento del ruolo tradizionale della donna non possa prescindere dall’indipendenza economica. Sempre nella prima metà del XX secolo, il movimento femminista si scinde: una parte decide di dedicarsi ad attività filantropiche mentre un’altra parte si rivolge al neonato Partito Comunista Cinese. Si dà in particolare risalto a questa parte del movimento e alla sua interazione con il movimento socialista: l’emancipazione delle donne e l’uguaglianza dei diritti è stata fin dall’inizio una delle piattaforme politiche del PCC. Il tentativo di integrazione è importante perché rappresenta il momento di elaborazione della base teorica di una strategia comune.

L’entrata delle donne nel mondo del lavoro le porta per la prima volta ad essere soggetti attivi di una serie di relazioni economiche; vengono meno i presupposti stessi su cui si basa la famiglia impostata su una concezione patriarcale e cambia il potere contrattuale della donna. Assieme agli uomini le donne condividono ora l’oppressione di classe ed è solo al crollo del sistema feudale e delle sue dinamiche economiche che seguirà, secondo il pensiero socialista, la rottura del sistema di dipendenza gerarchica tra i sessi. In questi anni si assiste a un tentativo, nelle aree sovietiche liberate, di applicare la teoria mettendo in pratica politiche di pari opportunità: diritto di voto, partecipazione alla vita politica, tutela del lavoro femminile, abolizione delle leggi restrittive, equiparazione del salario, diritto di proprietà privata e divorzio, istituzione di servizi sociali a supporto delle donne, istruzione.

Ci sono però delle problematiche alla base dell’alleanza destinate a rimanere insolute: le donne hanno la sensazione, spesso confermata nella realtà, che le loro istanze vengano sovente poste in secondo piano, a favore della lotta per l’unità nazionale prima e della ricostruzione della nazione e della lotta di classe poi. La rivoluzione porta inoltre nelle famiglie la messa in discussione dei ruoli tradizionali, creando problemi relazionali che rischiano di portare a una frattura nel movimento rivoluzionario. Con la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, nel 1949, il nuovo governo si impegna a sancire legalmente i diritti delle donne e a porre le condizioni per un effettivo cambiamento del loro status. È di questi primi anni la legge sul matrimonio e quella sulla ridistribuzione della terra.

Si lavora anche per consentire alle donne di intraprendere nuovi percorsi lavorativi tradizionalmente appannaggio degli uomini: piccole conquiste all’interno del complesso percorso di ridefinizione dei ruoli. Contemporaneamente, per rendere possibile un’effettiva partecipazione delle donne alla produzione, si lavora per ridurre gli impedimenti derivanti dalle differenze biologiche e dai ruoli tradizionali, creando facilitazioni volte a conciliare vita pubblica e familiare e, allo stesso tempo, a implementare la loro conoscenza rispetto a materie tecniche e scientifiche, presupposto necessario alla loro reale integrazione nel mondo del lavoro.

Nonostante gli sforzi volti a migliorare la condizione delle donne, permane però la loro sottorappresentanza a livello dirigenziale e si assiste a una nuova divisione del lavoro: le donne sono impegnate prevalentemente in settori non professionali che prevedono una retribuzione più bassa. La trasformazione economica degli anni ’50 non comporta un’automatica rivoluzione nella gerarchia tra i sessi e la realizzazione di un’effettiva uguaglianza di genere. La retorica secondo cui le donne sono la metà del cielo rappresenta un ulteriore approccio patriarcale alla tematica delle pari opportunità con rilevanti risvolti simbolici: viene preso in considerazione esclusivamente lo spazio maschile, a cui le donne sono invitate a prendere parte, che non tiene però conto delle istanze specifiche del mondo femminile, frutto di secoli di sottomissione.

La legge sul matrimonio, che potrebbe essere un esempio di politica di uguaglianza, strumento a prima vista utile per ridefinire almeno parzialmente il ruolo della donna anche da un punto di vista culturale, ponendola come soggetto attivo nelle proprie scelte, conferma ulteriormente quanto appena detto. La legge in questione non è mai stata supportata da un discorso culturale che coinvolgesse anche gli uomini e, poiché metteva in discussione l’assetto socio-familiare tradizionale, ha incontrato molte resistenze anche da parte dei quadri del partito, uomini nella quasi totalità dei casi. Inoltre non ha affrontato uno dei nodi cruciali del matrimonio tradizionale, che tanto influiva sulla vita delle donne e sulla percezione di sé stesse, del tempo e dello spazio: la patrilocalità. I figli maschi continuavano a essere gli unici membri permanenti della famiglia, coloro sui quali i genitori investivano, in quanto avrebbero provveduto al loro sostentamento durante la vecchiaia. Le figlie non erano considerate soggetti importanti per l’economia delle famiglie, la loro presenza era transitoria, al momento del matrimonio se ne sarebbero andate. Secondo alcune studiose sembra che la percezione del presente come transitorio e del futuro come incerto abbia determinato la rimozione di molto del mistero e dell’efficacia associata al cielo, ovvero al futuro, decantato dalla propaganda.

L’ultima parte analizza la ridefinizione del modello femminile che si avvale di una massiccia campagna condotta attraverso i media e la propaganda, e rafforza l’ipotesi tesa a dimostrare come l’impianto patriarcale che aveva sempre dominato la società cinese si sia riproposto e rafforzato su nuove basi nei primi decenni della Repubblica Popolare, mascherato da una retorica di facciata che dissertava su un’ipotetica uguaglianza, senza mai mettere realmente in discussione il rigido ordine gerarchico.

Arte e letteratura
venivano indicate da Mao come componenti essenziali del processo rivoluzionario, strumenti utilissimi che dovevano operare al fine di unire ed educare il popolo. Tradizionalmente l’arte era sempre stata utilizzata dal sistema politico cinese per diffondere ideali di comportamento e di pensiero: letteratura, poesia, musica, pittura, teatro avevano un’importante funzione didattica. Con la fondazione della Repubblica Popolare l’arte di propaganda fu impiegata come uno dei mezzi più utili ed efficaci durante le campagne per mobilitare il popolo, per veicolare modelli comportamentali di riferimento, per spiegare le scelte politiche e la visione che il Partito aveva del futuro, adattandone i contenuti alle esigenze del momento. I poster, economici, immediati e decorativi, erano onnipresenti; la loro diffusione avveniva in modo capillare.

Se si pensa in particolare all’importanza spaziale e visiva che hanno avuto, alla loro capacità di raggiungere la grossa fetta analfabeta della popolazione e alla loro funzione di veri e propri testi con significati culturali, sociali e politici, risulta chiaro come una loro analisi sia una componente chiave per comprendere il discorso ufficiale del tempo. La loro funzione infatti non era esclusivamente rivolta a una forma di educazione politica. Erano altresì essenziali nel produrre e consolidare strutture di potere gerarchiche attraverso una forma di esclusione e marginalizzazione di determinate categorie sociali, tra cui, naturalmente, le donne. Riferimenti simbolici, uso dei colori, spazio tra gli attori delle immagini, giustapposizioni, non erano mai lasciati al caso.

Le donne venivano rappresentate nell’atto di svolgere attività e lavori tradizionalmente appannaggio degli uomini, diventando creatrici e agenti della storia, ritratte ora in ambienti esterni, impegnate in lavori tradizionalmente considerati maschili, androgine, militanti e proletarie, la postura eroica, forte, sicura e determinata. Una prima lettura di queste immagini suggerisce che esse esemplifichino perfettamente la retorica sull’uguaglianza di genere, definita, come si è visto, su standard maschili. Sembra infatti che nulla distingua o differenzi i ruoli maschili da quelli femminili. Ma un’analisi più attenta, che tiene conto di alcuni indicatori di genere, dimostra come l’uguaglianza fosse illusoria.

Se i poster con immagini di donne in gruppo o sole, senza la presenza di uomini, suggeriscono un’autorità sul contesto e il riconoscimento di competenze e attitudini che formano il tema del poster, caratteristica questa trasversale ai diversi momenti storico-politici, e di conseguenza ai contenuti che vedono la trattazione di argomenti e messaggi specifici, si è voluto evidenziare come, quando la figura maschile compare nell’immagine, essa immediatamente assuma il ruolo di guida, mentre la donna scivoli in una posizione di subordinazione. Nonostante infatti in molte immagini ci sia una predominanza spaziale e visiva delle donne, e gli uomini ricoprano spesso il ruolo di spettatori, l’autorità maschile è rappresentata simbolicamente dalla posizione nell’immagine e dai vestiti. Inoltre la donna è spesso inserita in ambientazioni rurali e associata ai ranghi più bassi della forza lavoro urbana. La subordinazione delle donne in questa grammatica rappresentativa è doppia: in termini di classe sociale così come di genere sono le meno privilegiate. Il modo in cui sono ritratte le donne delle minoranze, quasi sempre con vestiti colorati e mentre ballano, in tempi in cui era fondamentale per una donna indossare abiti maschili, sembra a un tempo un modo per screditare il ruolo rivoluzionario femminile e per ribadire il potere dei cinesi Han e in particolare la supremazia del maschio han.

L’età costituisce un ulteriore indicatore dei rapporti gerarchici: tranne rarissimi casi, le donne anziane, che siano Han o delle minoranze, in un contesto rurale o urbano, semplicemente non compaiono, restano escluse da qualunque rappresentazione visiva. Al contrario gli uomini anziani appaiono regolarmente e la combinazione età-autorità, in perfetto accordo con la millenaria cultura cinese, conferisce al leader maschio una posizione elevata e privilegiata. L’uomo, inoltre, non è mai rappresentato in contesti ritenuti tradizionalmente femminili.

Gli anni della Rivoluzione Culturale presentano delle caratteristiche specifiche anche a livello di rappresentazione estetica del femminile, che si differenziano notevolmente nelle due fasi: la prima interessa gli anni delle Guardie Rosse (1966-1968), la seconda riguarda gli anni immediatamente successivi fino alla sua conclusione (1969-1976). La questione del genere esaspera l’annullamento delle differenze: soprattutto nella sua prima fase, femminismo e femminilità vengono respinti: qualsiasi discorso che concernesse problemi specifici delle donne veniva dichiarato borghese, la femminilità o la rivendicazione di una specifica identità veniva criminalizzata.

Qualsiasi cosa facesse apparire le ragazze secondo i canoni dell’estetica tradizionale era tacciata di essere borghese e in quanto tale messa al bando. Al contempo però l’onnipresenza di Mao relativizzava costantemente l’autorità delle donne. Il ritorno all’ordine della seconda fase vede invece le donne nuovamente in ruoli tradizionalmente associati ad esse.  Il pensiero socialista aveva sempre considerato l’oppressione femminile come parte del più vasto problema di sfruttamento e disuguaglianza cui solo una società senza classi poteva porre fine. Le donne venivano incoraggiate a entrare a pieno titolo nel mondo produttivo, ricoprendo ruoli prima prevalentemente maschili. L’operazione viene supportata dai media e dalla propaganda che lavorano alla creazione di una nuova immagine del femminile.

La realtà però è ben diversa: la Federazione delle Donne Cinesi era stata fondata per permettere alle donne di rafforzare i propri diritti ma di fatto era considerata parte del movimento rivoluzionario e soggetta alla supervisione del partito. Non godeva dell’autonomia necessaria a portare avanti le istanze specifiche delle donne e doveva servire in primo luogo la causa rivoluzionaria; il mercato del lavoro era caratterizzato dalla segregazione di genere che vedeva le donne impegnate principalmente in settori considerati femminili, e comunque a livelli bassi, con una conseguente retribuzione inferiore.

Nessun processo di ripensamento e di messa in discussione del ruolo dell’uomo era stato avviato, con il risultato che, da una parte, le donne si trovavano il doppio carico di lavoro che impediva loro di dedicarsi ad altro come ad esempio l’implementazione delle proprie conoscenze che avrebbe garantito una crescita lavorativa, e dall’altra, i quadri del partito, uomini, ostacolavano l’applicazione delle leggi che avrebbero potuto contribuire a un miglioramento della situazione delle donne; la legge sul matrimonio non aveva toccato uno dei nodi cruciali, la patrilocalità, e non veniva comunque applicata correttamente perché creava subbuglio mettendo radicalmente in discussione i ruoli. A livello dirigenziale la presenza femminile era quasi nulla. Le stesse immagini, che a prima vista sembrano celebrare quell’uguaglianza che di fatto non esisteva, nascondono in realtà una visione maschilista del ruolo della donna.

*Dolores Viero, nata a Valdagno (VI), l’1 agosto 1974. Laureata in Lingue e Civiltà Orientali (cinese) all’Università Cà Foscari di Venezia. Dopo la laurea ha frequentato il Master ITALS e il Master sui fenomeni migratori e le trasformazioni sociali. Attualmente collabora con l’Osservatorio Veneziano Antidiscriminazioni e con il Servizio Immigrazione del Comune di Venezia.

** Questa tesi è stata discussa presso la Ca’ Foscari di Venezia. Relatore: prof. Marco Ceresa; correlatore: prof. Marco Perusi.

[L’immagine di copertina è di Federica Festagallo]