SINOLOGIE – Il rapporto tra Stato e religioni

In Uncategorized by Simone

La tesi Diritto e religione nell’esperienza costituzionale cinese ha come obiettivo evidenziare le caratteristiche principali, particolarmente nei suoi aspetti costituzionali, del rapporto tra Stato cinese e religione. Un rapporto complicato sin dalle origini, che ha sempre visto la libertà di culto subordinata al potere centrale dello Stato.
Il rapporto tra Stato e fattore religioso in Cina è risultato, sin dal principio, essere quantomeno complicato. Se infatti già nella fase antica, ai tempi della dinastia Zhou (1045 – 256 a.C.), s’inaugurava l’artifizio del Mandato dal Cielo che conferiva all’imperatore l’investitura divina, subordinando a sé il potere religioso e, di fatto, servendosi della religione – pur mantenendo una debita distanza dalle varie confessioni o culti particolari. Le cose, col tempo e grazie all’estremamente vario panorama religioso cinese, sono andate complicandosi ulteriormente. Ciò ha comportato lo sviluppo di un modo alternativo d’interfacciarsi da parte dello Stato nei confronti delle comunità religiose, quantomeno rispetto alle controparti Occidentali, con le inevitabili conseguenze del caso sul piano giuridico.

Culti tradizionali e potere imperiale.
Pur approcciandosi da un punto di vista prettamente giuridico, non si può prescindere dal fenomeno dello sciamanesimo cinese, una delle primissime forme di religiosità. La tradizione sciamanica viene infatti fatta risalire almeno al tempo della dinastia Shang, che copre un periodo tra il XVI e l’XI secolo a.C., ed in cui su tale culto e sull’arte divinatoria si basavano le decisioni, nonché la legittimazione politica delle autorità del tempo. Ad ogni modo, molti elementi di queste tradizioni antiche sono stati fondamentali e permangono ancora, al di là di una marginale rinascita sotto forma di neo-sciamanesimo, andando a costituire un bagaglio importante dell’attuale religione popolare cinese. La quale invece, assume un carattere particolarmente rilevante sul piano giuridico per come le varie autorità politiche vi si sono poste in relazione.

Chiamata anche shenismo  (shénjiào 神教), include tutta una serie di credenze locali e pratiche rituali da tempo immemore parte del patrimonio religioso collettivo-etnico Han, anche per questo, estremamente radicate e pressoché immuni ai vari tentativi dell’autorità pubblica di estirparle. Un particolare riferimento va fatto a medium e sciamani, che durante la dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.), attraverso stati di trance e danze estatiche curavano malattie, invocavano la pioggia e naturalmente comunicavano con l’aldilà. Tali figure, seppur presenti ad ogni livello della società, persero progressivamente prestigio e furono sottoposte a restrizioni sempre maggiori. Nonostante il diritto tradizionale cinese si limitasse a normare il fattore religioso solo in relazione all’integrità dello Stato, nei confronti di sciamane e medium si arrivò fino a prevedere l’interdizione dai pubblici uffici per chi si fosse sposato con una di queste.

Nel 485 d.C., durante gli Wei settentrionali  (386–535), fu esplicitamente decretato che “All shamans who pretend to communicate with gods and spirits 假稱神鬼,pronounce nonsense about good and bad fortune 妄說吉凶 and in the alleyways engage in divination and other activities not mentioned in the ritual codes are strictly forbidden”. Divieto che, più di mille anni dopo sarà ancora sostanzialmente presente nel Codice della grande dinastia Qing. Come d’altra parte, è in realtà emerso dalla ricerca, la religione folcloristica cinese è risultata, e tutt’oggi risulta, essere priva di una qualsiasi tutela, se non apertamente discriminata in quanto ‘superstizione’.

Il taoismo, che pure attingeva molto dal bagaglio folcloristico-religioso cinese, istituzionalizzandosi nel I secolo d.C, visse alti e bassi nella suo rapporto con l’autorità imperiale. Inizialmente guardato con sospetto, tanto da essere appena tollerato nei regni di Wei e Wu, nei quali “venerare Laozi, sciamani malvagi, guarigioni e divinazioni” era proibito, a partire dalla dinastia Jin, il taoismo incominciò a diventare sempre maggiormente intrecciato con la classe dirigente, fino a diventare la religione con lo status più alto durante la dinastia Tang (618-907). Periodo in cui, peraltro, fecero il loro ingresso, affiancandosi a quelle già presenti, altre tradizioni religiose, come i primissimi cristiani -nella variante nestoriana- e i primi islamici.

Durante il fermento intellettuale del periodo delle Cento scuole di pensiero (720-221 a.C), che già diede i natali al taoismo, nacque anche il confucianesimo, il cui contributo nella società, nel diritto e nell’amministrazione cinese, come è chiaramente emerso nella tesi, è stato fondamentale e che con poche eccezioni, rappresentò la dottrina di Stato fino alla fine dell’impero. Infine, l’ultima grande religione cinese, il buddhismo fu introdotto durante il periodo degli Han orientali (25-220) presso l’aristocrazia per poi progressivamente diffondersi tra la popolazione. Eccettuata infatti qualche persecuzione determinata principalmente da ragioni finanziarie e dalla necessità di porre il clero buddhista tra i ranghi dei contribuenti, sotto il controllo imperiale fu in genere trattato con benevolenza.

Nel complesso, emerge che se da una parte nessuna confessione ha mai potuto organizzarsi autonomamente, poiché sempre soggetta in ultima istanza al giudizio dell’imperatore, in qualità di figlio del cielo, dall’altra, in un contesto di pluralità di confessioni egualmente forti e radicate, non essendoci l’obbligo di credere o non credere in una religione, si può parlare della presenza di sicuramente un certo grado di libertà di culto. A livello politico pratico, a spingere l’imperatore a prediligere la tolleranza, in netto contrasto con quanto nello stesso periodo avveniva ad esempio in Europa, era la consapevolezza del rapporto particolare che i cinesi avevano con le varie tradizioni religiose.

Generalmente, dalla nobiltà fino al popolo, una divinità veniva pregata –a prescindere dalla sua provenienza- fintantoché portasse fortuna. Così, mentre tra i più selettivi aristocratici, con l’imperatore spesso incluso, si praticava simultaneamente buddhismo e taoismo, la gente comune era incline a prostrarsi a qualsiasi dio. In un tale contesto sociale, dal canto dell’autorità pubblica, dal momento in cui una religione serviva a consolidare il potere imperiale, era la benvenuta.

Il diritto tradizionale cinese fissa le proprie radici nel fermento filosofico delle Cento scuole di pensiero, nel solco tra speculazione confuciana e legista. Sulla base di queste stesse concezioni filosofiche, il diritto tradizionale di epoca imperiale finì per essere concepito pressoché esclusivamente come diritto penale e diritto amministrativo, ossia quale diritto pubblico. Tanto che la prima produzione esclusivamente civile si ebbe soltanto nel 1911 con il Da Qing Minlü cao’an, ovvero la Bozza del codice civile della grande dinastia Qing, che con la caduta dell’impero non ebbe però il tempo d’essere promulgata. Nondimeno questo non implica che all’interno dell’ordinamento imperiale cinese non vi fosse spazio per il diritto civile, che al contrario, prevedeva norme dettagliate, ma di contenuto fondamentalmente sociale e morale e di natura consuetudinaria.

È importante inoltre sottolineare la difficoltà di distinguere tutto ciò che è “diritto”, da ciò che è politica o amministrazione, data la mancanza di una tradizione di separazione dei poteri. Specialmente se tale diritto è quello ecclesiastico, considerata anche la peculiare natura del rapporto tra autorità statale cinese ed il fattore religioso. Almeno fino alla nascita della repubblica di Cina nel 1912. L’adozione della dicotomia “religione” (zongjiao 宗教) / “superstizione” (mixin 迷信), d’importazione occidentale, risultò infatti funzionale a creare un ambiente giuridico in cui le varie confessioni potessero gestirsi autonomamente ed interfacciarsi con lo Stato sotto forma di associazioni nazionali riconosciute.

Modello che verrà sostanzialmente ripreso anche dalla Repubblica popolare dopo il ’49. Contemporaneamente infatti, mentre il Partito comunista cinese (Pcc) avviava una politica repressiva dei gruppi legati alla religione tradizionale cinese, considerata una superstizione reazionaria, le cinque grandi religioni tutelate anche dalla Repubblica di Cina (cattolicesimo, protestantesimo, islam, buddhismo e taoismo), venivano cooptate secondo il modello associativo, andando così a fondare le associazioni patriottiche, su cui tutt’oggi si basa la politica religiosa del Pcc.

Repubblica popolare e fattore religioso.
Sul profilo costituzionale, il Programma comune del 1949, rappresentò la costituzione ad interim fino al 1954, che, senza presentare particolare carattere innovativo, si limitava a garantire all’art. 5 la libertà di culto e all’art. 53 la tutela del patrimonio culturale e religioso delle minoranze. Cosa che non sarebbe fondamentalmente cambiata con l’approvazione della prima costituzione in senso proprio nel ‘54, che d’altra parte, riprendendo molto dal Programma comune, non presentava novità e liquidava lapidariamente la tutela religiosa all’art.88.

Nella nuova carta del ’75, di soli trenta articoli e intrisa di rivoluzione culturale, la questione religiosa veniva riformata, attingendo dall’esperienza costituzionale sovietica del ’36, con l’introduzione della “libertà di credere e di non credere ad una religione e di diffondere l’ateismo”. Situazione che rimase immutata anche con la successiva Carta del ’78 e destinata a cambiare solo con l’attuale Costituzione dell’82. Questa, basata sulla Carta del ’54, è stata considerata la migliore ad oggi tra le carte costituzionali cinesi.

Particolarmente per quanto riguarda la tutela della libertà religiosa, l’art. 36 risulta essere il più completo ed esauriente – anche se presenta non poche peculiarità. A caratterizzarlo, oltre alla mancanza del riferimento alla libertà di diffondere l’ateismo, è la riserva alla "normalità" delle attività religiose. Lo Stato dichiara infatti di tutelare le attività religiose “normali”, senza nondimeno spiegare cosa s’intenda per normale, prestandosi dunque a varie reinterpretazioni figlie delle necessità politiche contingenti. D’altra parte, similmente, continuando nella seconda parte dell’articolo, è pur sempre la discrezionalità statale, dimostratasi spesso arbitraria, a decidere quali culti turbano l’ordine pubblico o sono dannosi per la salute dei cittadini. Infine, il riferimento esplicito alla questione dell’ingerenza straniera sulle attività religiose cinesi ribadisce ulteriormente la volontà di fare delle associazioni patriottiche il perno della politica religiosa del Pcc
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In linea generale, l’approccio del Partito verso il fattore religioso, terminata l’esperienza rivoluzionaria, passò da essere ideologico a pragmatico. Abbandonando la concezione di religione come oppio dei popoli, ostruente il progresso sociale , si riconosceva che questa era un fenomeno destinato a durare a lungo, senza rinunciare alla teoria marxiana dell’auto-dissoluzione della religione con la trasformazione della società. Come risultato pratico dell’evoluzione teorico-dottrinaria, nel 1982 viene emanato il cd. Documento 19, che rappresenta la direttiva del PCC che definisce i limiti della libertà di culto, come nei fatti oggi viene intesa e concessa dalle autorità cinesi e che accettando la religione come destinata a durare nel lungo periodo, riconosce come assolutamente inutili e dannose le misure coercitive sperimentate in passato, ed anzi, auspica la tutela della libertà di culto, come unico modo per risolvere la questione religiosa.

Al Documento 19, ancora attuale pietra angolare della politica religiosa del Pcc, s’affiancarono altri direttive, tra cui i decreti del consiglio degli affari di Stato 144 e 145 del ’94, che stringevano le maglie del controllo sugli affari religiosi interni cinesi e sulle attività religiose degli stranieri in Cina. A coronare infine la politica religiosa del Pcc, nel 2005 sono entrare in vigore le "Norme relative agli affari religiosi" con cui per la prima volta a livello nazionale, con una normativa s’imponeva alle amministrazioni locali di aggiornare la propria politica religiosa in conformità alle nuove disposizioni, uniformando aspetti prima affidati a regolamenti locali. Seppur costituzionalmente prevista, nella prassi, la tutela della libertà di culto presenta numerose criticità, evidenziate sia dall’interno, che dalla comunità internazionale. In primis, il sistema di registrazione, considerato uno dei mezzi principali di controllo da parte dello Stato.

Infatti, solo i gruppi confessionali rientranti in una delle cinque associazioni patriottiche riconosciute possono registrarsi presso gli uffici governativi ed ottenere il diritto ad esercitare legalmente l’attività religiosa e pure all’interno delle congregazioni riconosciute, nell’esercitare le sue funzioni, il clero è sottoposto a notevoli restrizioni. Un’altra criticità a cui spesso viene fatto riferimento riguarda la questione delle interferenze e del cosiddetto dominio straniero sulle attività religiose e del relativo atteggiamento del governo cinese, giudicato poco consono ad una piena libertà di culto, come d’altronde anche la censura governativa sulla letteratura religiosa -che ne determina contenuti, copie e distribuzione-, facendo emergere nel complesso un forte intervento statale su più livelli nella sfera religiosa.

Cionondimeno, un giudizio unanime è lungi dall’essere raggiunto. Emerge infatti in letteratura chi sostiene le, con qualche eccezione, ottime performance su gran parte degli indicatori per i diritti umani della Repubblica popolare, che sarebbe invece ingiustamente valutata sulla base di un doppio standard nato dall’atteggiamento pregiudizievole della comunità promotrice dei diritti umani verso i regimi autoritari. In conclusione, nella moderna lettura post-ideologica, in cui la principale preoccupazione del Partito non è osteggiare il fenomeno di culto come intrinsecamente incompatibile con il marxismo, ma come potenziale minaccia alla conservazione del potere centrale, molto è stato fatto sul fronte della libertà di culto. Seppur alcune criticità non secondarie permangano, il PCC sta gradualmente dimostrando di cogliere la necessità di coniugare il suo bisogno di controllo con una tutela base dei diritti fondamentali ed evitare dunque scontri inutili sia con la comunità internazionale che con le minoranze religiose presenti.

*Nicola Zaccagnino, zaccagninonicola1[@]gmail.com, ha conseguito nel luglio 2014 la laurea triennale in Scienze politiche e delle relazioni internazionali presso l’Università di Trieste, con una votazione di 110 e lode. Si interessa di diritto e politica ecclesiastica e di analisi delle politiche pubbliche, particolarmente negli aspetti riguardanti la Cina e l’Estremo Oriente in genere, di cui è perdutamente innamorato.

**Questa tesi è stata presentata presso l’Università degli Studi di Trieste. Relatore: prof. Roberto Scarciglia.

[La foto di copertina è di Federica Festagallo]