La tesi Democrazia con caratteristiche cinesi. Prospettive di un riformismo controllato esplora il peso della tradizione confuciana. Il retaggio imperiale e l’eredità dell’ideologia comunista impediscono alla Cina di intraprendere una strada probabilmente incompatibile con l’essenza stessa del sistema e della natura cinese, ma soprattutto con le prerogative del partito, il moderno imperatore organizzativo incaricato di perpetuare il suo regno.
Si può parlare di Cina come di una democrazia con caratteristiche cinesi? Il socialismo di mercato e le riforme avviate negli anni ‘80 da Deng Xiaoping e implementate dalle successive leadership hanno cambiato il volto della RPC: maggiore istituzionalizzazione del sistema politico, meccanismi di partecipazione dal basso, realtà di autogoverno nei villaggi, sviluppo delle forze sociali e democrazia infra-partitica. A prima vista, si potrebbe avere l’impressione che si tratti di misure di apertura finalizzate a rinnovare la struttura autoritaria della Cina in senso democratico. La mia tesi cerca di fornire gli elementi per rispondere a tale domanda, presentando e analizzando le trasformazioni più importanti avvenute nel sistema, e mettendo a fuoco il ruolo centrale del Partito Comunista Cinese in rapporto agli sviluppi della società e delle istituzioni statali.
Nell’ordinamento politico cinese, fondato sul principio della leadership duale, il partito, fondatore della RPC, svolge un ruolo direttivo, proprio di chi ha conquistato il paese e lo considera un bene di sua proprietà; allo stato, invece, è riservata una funzione manageriale, ma comunque sempre subordinata a quella del PCC. Fin dalla proclamazione della nascita della Repubblica Popolare Cinese, il Partito si è trovato alle prese con una questione sostanziale: come regolare e definire le funzioni dell’apparato statale in relazione ai propri poteri? E come gestire la legalità all’interno della neonata RPC? Dai tempi di Mao a oggi, si sono sì riequilibrati i rapporti tra il PCC e lo stato, ma il Partito ha continuato a mantenere gelosamente il ruolo di “proprietario” e fulcro del sistema politico cinese. Questo è stato possibile perché, nel corso degli ultimi settant’anni, esso è stato capace di adattarsi alle trasformazioni socioeconomiche in maniera piuttosto elastica e sempre graduale abbandonando progressivamente le sembianze di partito rivoluzionario per rivolgersi verso qualcosa di più simile a un ruling party. Ma, nonostante le recenti aperture, la Rpc è ancora ben lungi da rientrare nella cerchia degli Stati di diritto che fondano la propria legittimità sul principio di legalità (rule of law).
Infatti, pur fondando il suo ordinamento su una carta costituzionale che sancisce la supremazia della legge sopra ogni persona o gruppo, la Cina non possiede ancora le caratteristiche degli stati democratici che legiferano secondo il principio di legalità e la separazione dei poteri, ai quali contrappone la legalità socialista e la pratica del centralismo democratico. Il rule of law, inoltre, non è un elemento autoctono, ma importato: in Cina tradizionalmente la legge non è mai stata uno strumento di governo in quanto non era ritenuta idonea a disciplinare i rapporti sociali organizzati secondo precise regole morali (li), codificate nel libro dei Riti, della cui giuridicità il sovrano era garante.
Nella tradizione cinese emerge quindi che a ordinare il paese non è un sistema di leggi adottate secondo procedimenti istituzionalizzati, ma un insieme di norme informali, basato sull’osservanza dei riti e il concetto di virtù (ren), il cui scopo era il consolidamento dell’ideale confuciano di armonia, concetto estraneo ai principi occidentali di pluralismo e libertà individuale coniati dal mondo classico. L’idea di legge come qualcosa che viene dall’alto e che non è frutto di un processo legislativo svolto secondo il principio occidentale di legalità è rimasto un tratto distintivo dell’ordinamento cinese dall’età imperiale al comunismo. Tuttavia, con il velocizzarsi della modernizzazione unito all’inevitabile avvicinamento con l’Occidente (se non altro nei rapporti economici) l’adozione del principio di legalità è diventato per la dirigenza cinese una vera preoccupazione, tanto che parlare di modernizzazione dello stato sembra ormai inscindibile dal tema del rule of law.
Oltre a far emergere questa nuova esigenza di legalità, le Riforme avviate nel ’76 hanno innescato una fase di importante sviluppo della società civile cinese: a partire dagli anni ‘80 nasce in Cina un nuovo spazio pubblico separato da quello burocratizzato dello stato e del partito, e distinto anche da quello del mercato. Nel corso degli ultimi quarant’anni, le forze della società civile hanno trovato sempre più un ambiente fertile per crescere e affermarsi nel tessuto socio-politico cinese. Gli organi dello stato insieme al PCC hanno ribadito più volte la necessità di sviluppare una “società civile socialista” accompagnata da forme di grassroots democracy per alimentare il consolidamento di una democrazia con caratteristiche cinesi. Oltre ad accordare più spazio e autonomia alle CSO, spesso utilizzate a vantaggio dello stato come helping hands nell’erogazione di servizi di welfare alla cittadinanza e sostegno nelle zone più povere ed emarginate della Cina, lo stato ha infatti dato una spinta essenziale nella diffusione di nuovi strumenti di partecipazione politica, a partire dai villaggi fino agli esperimenti a livello di township. Elemento chiave della partecipazione politica “dal basso” e dell’auto-governo nelle aree rurali sono i Villagers’ Committee, “organizzazioni di massa” autonome svincolate dal PCC e votate direttamente e (più o meno) democraticamente dagli abitanti delle campagne.
Le elezioni dirette, libere e semicompetitive che si tengono nei villaggi si sono trasformate in uno strumento al servizio dei cittadini delle campagne utile per allontanare i politici corrotti dalla comunità e mettere da parte i candidati nominati dal partito ma considerati incompatibili con le esigenze del villaggio. Ma contemporaneamente ai cittadini, è anche lo stato che ottiene un vantaggio da questo istituto democratico. Infatti, le elezioni semicompetitive e la self-governance nei villaggi possono essere visti come l’ennesimo mezzo utilizzato dalla RPC per adattarsi alle spinte e alle trasformazioni socioeconomiche del Paese in modo da soddisfare le sue costanti esigenze di legittimazione da parte delle masse. Questa forma di grassroots democracy consente allo stato di espellere le mele marce dal sistema, depurandolo dalla corruzione, un male che minaccia fortemente la coerenza e la legittimità del partito. Fintanto che questo tipo più democratico di elezioni rimane confinato a livello dei villaggi – e in fase sperimentale alle cittadine (township) – esso non è in grado di mettere a repentaglio l’egemonia del PCC e la tenuta politica dello stato; al contrario, favorirà lo sviluppo della democrazia con caratteristiche cinesi e di una società “armoniosa” secondo il modello proposto dall’attuale leadership, obiettivo costante della storia cinese.
Oltre a introdurre “esternamente” forme di grassroots democracy, il PCC ha colto la necessità di trasformare anche alcune dinamiche interne al partito, passo indispensabile a fargli mantenere il suo ruolo dominante sullo stato e sulla società. Il PCC ha quindi inserito nella sua organizzazione alcune procedure più partecipative: metodi di supervisione delle attività dei funzionari, elezioni infra-partitiche semicompetitive, sistemi informativi migliorati, misure di checks and balances per combattere e ridurre i casi abusi di potere, strumenti anti-corruzione etc. La volontà del partito è quindi quella di creare una “democrazia infra-partitica” che garantisca una migliore governance e gli assicuri di conseguenza livelli di sostegno e legittimità più alti non solo da parte dei membri del PCC, ma anche dalla popolazione cinese. Ma anche in questo caso non mancano le contraddizioni: il custode ultimo della legalità rimane sempre e comunque il Partito. Imparzialità e trasparenza delle procedure vengono quindi facilmente messe in dubbio.
In definitiva, appare chiaro che il Party/State è sempre cosciente di quale sia l’obiettivo finale di queste concessioni più democratiche: la garanzia del sostegno popolare e la necessità di mantenere alti i livelli di legittimità. Infatti, è da esse che dipendono la sicurezza e la stabilità della Rpc. Questi presupposti sono essenziali per la perpetuazione di un sistema comunista governato da un partito, nella prospettiva dello studioso Zheng Yongnian, simile a un moderno “imperatore organizzativo”. Di fronte a questa situazione, la maggior parte degli intellettuali cinesi che si sono formati in Occidente ritiene che la prospettiva migliore per la sopravvivenza della Rpc sia l’instaurazione di una democrazia fondata su elezioni libere che legittimino in modo effettivo la scelta dei leader, e sulla tutela dei diritti dei cittadini. Al contrario, oltre ai funzionari della RPC che si dimostrano piuttosto diffidenti, e più spesso del tutto contrari, alla conversione democratica del sistema, alcuni intellettuali come Wei Pan ritengono che la democrazia, incompatibile con le esigenze e i tratti caratteristici della Cina e ormai modello politico poco credibile, porterebbe al collasso del sistema, al caos (luan). Alla democrazia, il pragmatico Wei Pan contrappone la teoria del Consultative Rule of Law Regime: ciò che la Cina deve realizzare è una liberalizzazione del sistema politico, senza democratizzazione, che metta al centro del cambiamento l’osservanza del rule of law e non le elezioni democratiche.
Anche Zheng Yongnian, un altro influente studioso, afferma che la democrazia non è da considerare in alcun modo come un esito certo del processo di graduale inclusione delle forze sociali, poiché la “poliarchia” impedirebbe al partito di realizzare il suo progetto egemonico. La prospettiva più plausibile agli occhi di Zheng è lo sviluppo di un’egemonia inclusiva gestita dal partito, il moderno imperatore organizzativo. In conclusione, anche se dal 1949 a oggi il volto del PCC ha assunto connotati più simili a quelli di un ruling party, la Cina è ancora lungi dal diventare uno stato di diritto su modello occidentale. Nonostante la pressione istituzionale sul principio di legalità sia all’ordine del giorno nell’agenda politica, la concreta realizzazione delle tappe che porterebbero la Cina a entrare nella cerchia degli stati di diritto non sono state ancora messe a punto. Molto probabilmente, la RPC, come ha evidenziato Wei Pan, non può per ragioni sia culturali, sia geografiche introdurre nel suo ordinamento il multipartitismo e libere elezioni. Il peso della tradizione confuciana, il retaggio imperiale e l’eredità dell’ideologia comunista impediscono alla Cina di intraprendere una strada così radicale che risulta, in ultima istanza, probabilmente incompatibile con l’essenza stessa del sistema e della natura cinese, ma soprattutto con le prerogative del partito, il moderno imperatore organizzativo incaricato di perpetuare il suo regno.
*Silvia Malnati aivlis.malnati@gmail.com è nata a Monza il 16 aprile 1992. Si è laureata a marzo in Scienze Internazionali e Istituzioni Europee presso l’Università degli Studi di Milano. Oggi prosegue il suo lavoro di web content editor e giornalista freelance per alcune testate online.
**Questa tesi è stata discussa presso l’Università degli Studi di Milano. Relatore: prof. Francesco Montessoro