Lo sciopero degli autisti cinesi per chiedere condizioni salariali uguali a quelle dei colleghi di altre nazionalità ha scoperchiato il rapporto tra Singapore e i lavoratori migranti. Ma è anche visto come un possibile segnale di un risveglio contro l’autoritarismo paternalistico con cui è governata la città-Stato.
Il 26 novembre gli autisti cinesi della compagnia di trasporto pubblico SRMT si sono astenuti dal lavoro per chiedere l’adeguamento dei propri salari a quello di colleghi di altre nazionalità. Per Singapore si è trattato del primo sciopero in 26 anni. Nella città-Stato nota per l’efficienza e la pulizia, la prima conseguenza della protesta sono stati gli autobus pieni e qualche coda alle fermate.
Il primo giorno alla manifestazione hanno partecipato 171 autisti. Nel secondo in 88 hanno deciso di non tornare a lavoro giudicando nullo l’accordo trovato il giorno prima con l’azienda per un aumento salariale. La reazione è stato l’invio della polizia per porre fine a una manifestazione considerata illegale.
Il trasporto pubblico è considerato un servizio essenziale. Secondo la legge, le manifestazioni devono essere indette con almeno due settimane di preavviso.
Nei giorni successivi 29 autisti cinesi cui è stato revocato il permesso di lavoro sono stati espulsi da Singapore. Altri quattro, ora liberi su cauzione, sono indagati per sciopero illegale e rischiano fino a un anno di detenzione e multe fino a 1500 euro (più di un mese di stipendio). Un quinto autista, Bao Fengshan, è stato invece condannato a sei settimane di carcere dopo essersi dichiarato colpevole.
Pechino si è detta preoccupata per le espulsioni chiedendo di garantire adeguate condizioni di lavoro. “Singapore deve porre fine ai maltrattamenti dei migranti”, titola invece il China Daily. Per una volta il governo cinese si è trovato allineato con le posizioni dell’organizzazione Human Rights Watch.
“Con la criminalizzazione dei migranti per un sciopero e con la minaccia di multe e del carcere, Singapore sfida i diritti del lavoro basilari”, ha scritto in una nota Phil Robertson, direttore incaricato per l’Asia dell’organizzazione per la tutela dei diritti umani, “Il Paese dipende dai lavoratori migranti, deve quindi capire che sta giocando con il fuoco permettendo alle aziende sia pubbliche sia private di fare discriminazioni in base alla nazionalità”.
Le disparità salariali sono consistenti. Lo stipendio degli autisti cinesi è di 1.075 dollari di Singapore al mese (circa 700 euro) contro i 1.400 dei colleghi malaysiani. Lo sciopero ha inoltre scoperchiato il rapporto tra la città-Stato e i lavoratori migranti. Spesso tuttavia questi ultimi sono lasciati soli.
L’azione dell’ambasciata di Hong Kong, spiega critico il China Labour Bulletin, è nella maggior parte dei casi inefficace e passiva. I lavoratori cinesi sono quasi abbandonati, con scarsi contatti con i residenti. Anche nel caso dello sciopero, sebbene a conoscenza dei rischi, il fatto che tutti i regolamenti siano scritti in inglese non ha giovato a dipendenti che parlano quasi esclusivamente cinese e non possono pertanto addentrarsi a fondo nei meandri della legge per far valere i propri diritti.
Dal canto suo il National Trade Unions Congress, unico sindacato della città, si è schierato a fianco del governo. Anche tra la popolazione in molti hanno condiviso la linea dura sia per i disagi subiti sia perché concordi nel giudicare la protesta illegale. C’è infatti risentimento tra quanti imputano all’afflusso di stranieri l’aumento dei prezzi immobiliari o accusano i nuovi arrivati di essere indisciplinati.
Nell’ultimo anno, con l’obiettivo di ridurre potenziali frizioni sociali, il governo ha dato un giro di vite all’arrivo di lavoratori stranieri con il rischio di intaccare la competitività del Paese diventato un magnete per le compagnie straniere.
Certo non manca chi critica i propri concittadini per queste posizioni e anzi, come scrive la rivista australiana Green Left Weekly, vede in queste manifestazioni un barlume per la rinascita di un movimento di lavoratori che in prospettiva possa portare a una maggiore democratizzazione del sistema politico dominato sin dagli anni Cinquanta dal People’s Action Party.
[Foto credit: news.xin.msn.com]