FEFF CINA

Sfumature di una Cina che cambia: la fine dell’ottimismo al FEFF

In Cina, Cultura by Redazione

 27° edizione del Far East Film Festival (FEFF): quattro film cinesi raccontano un Paese che evolve, ma che ha perso l’illusione di correre verso un futuro ineluttabilmente migliore.

Se il cinema è uno specchio, i film cinesi presentati alla 27° edizione del Far East Film Festival (FEFF), rispecchiano una Cina che, sebbene ancora in evoluzione, è molto diversa da quella dell’epopea della crescita sfrenata e dell’ottimismo generalizzato che dagli anni Duemila in poi l’hanno definita.

La Cina che trapela da Green Wave, Like a Rolling Stone, Upstream, My Friend An Delie e Her Story – commedia brillante vincitrice del Gelso d’Oro e campione d’incassi ai botteghini in Cina – c’è una Cina lontana anche dalla retorica dell’armonia sociale e del “sogno cinese”, fatta di confronti generazionali e di grandi disincanti collettivi, soprattutto in tema lavoro e aspirazioni personali.

Grande protagonista, la gig economy, tra i temi più presenti anche nel dibattito politico cinese attuale, e fonte sì di crescita e riscatto nazionale, ma anche di precarietà estrema e troppo spesso di erosione della dignità lavorativa.

In Upstream, tra i titoli più riusciti del FEFF, Gao Zhilei, ingegnere informatico di 45 anni, laureato alla prestigiosa Università Tongji, si ritrova improvvisamente licenziato e costretto a reinventarsi come rider per una app di consegna del cibo in una Shanghai frenetica, labirintica, e spietata.

Tra corse contro il tempo, recensioni dei clienti e “Operazioni Illuminiamo la città” — controlli a sorpresa dell’algoritmo per verificare tramite scan facciale che il rider sorrida in modo “naturale” — si dipana la vita quotidiana dei rider: un microcosmo popolato da ex contadini, pastori provenienti dalla Mongolia, buttafuori ed aspiranti influencer che fanno dirette streaming tra una consegna e l’altra. In una lotta serrata per il premio mensile di efficienza, i rider si sfidano senza sosta, ma alla fine, è il senso di solidarietà e di cominità a prevalere. Persino nei confronti di un ex colletto bianco come Gao Zhilei, abituato ad un lavoro d’ufficio sedentario ma prestigioso, e che inizialmente è un pesce fuor d’acqua, sempre agli ultimi posti della classifica di efficienza mensile.

Ma sono le aspettative, il peso più grande sulle spalle di Gao: a cominciare da quelle del padre, ex commerciante, che come tanti in Cina ha fatto una vita di sacrifici per fare studiare il figlio, convinto che avrebbe conquistato una posizione stabile, capace di garantire sicurezza alla famiglia, coprire il mutuo della bella casa che hanno comprato e prendersi cura dei genitori. Quando scopre che Gao si è reinventato come rider, reagisce con rabbia e delusione.

Sarà solo una vecchia foto di sé stesso da giovane, ritrovata in un cassetto, a fargli cambiare atteggiamento. Il ricordo dei sacrifici, delle rinunce,  e soprattutto dei compromessi fatti in prima persona per costruire una vita migliore, lo spingono alla comprensione e, con uno sguardo pieno di fiducia, incoraggia il figlio, dicendosi sicuro che, nonostante le difficoltà, andrà tutto “sempre meglio”— 越来,越好yuè lái, yuè hǎo.

A quel punto, persino la vendita della casa, per acquistarne una più piccola, diventa una liberazione: un passo per uscire dalla corsa al benessere a tutti i costi, riscoprendo che ciò che davvero conta sono i legami familiare.

Rimane però la fatica di affermarsi in una società dove, a ogni età, e per ogni estrazione sociale, si è costretti a negoziare tra sogni, necessità, aspirazioni, e pressioni sociali.

Come Upstream, anche Green Wave – il cui titolo originale è 前程似锦, letteralmente “futuro promettente”- esplora il tema delle aspettative, ma lo fa concentrandosi con ironia e tenerezza sul divario generazionale tra un padre pragmatico e un figlio adulto ancora perso tra sogni e incertezze. Lao Wei arriva a Pechino dal villaggio natale per far valutare una ciotola di porcellana trovata tra le macerie della casa di famiglia. Lo accoglie suo figlio, Wei Fei, giovane sceneggiatore che, tra social media e aspirazioni frustrate, fatica a trovare una propria strada.

Attraverso situazioni surreali e incontri grotteschi, il film mette in scena due visioni del mondo opposte, ma accomunate da un bisogno profondo di riscatto e riconoscimento. Se il padre crede ancora nel valore del lavoro e del rispetto sociale, il figlio insegue, con una crescente frustrazione, successo personale e libertà creativa. Ancora una volta, sarà la solidarietà familiare e l’aiuto reciproco, a tirarli fuori dalle rispettive difficoltà.

E se da una parte la famiglia può essere salvifica, dall’altra può rivelarsi una gabbia dalla quale scappare per autodeterminarsi. Come accade in Like a Rolling Stone, forse la più ottimista delle quattro pellicole, tramite cui la regista Yin Lichuan porta sullo schermo una rivoluzione femminile silenziosa, ma potente, tematica ancora una volta al centro del vivace dibattito politico in Cina.

Tratto dalla storia veria di Su Min, una donna che nel 2020, all’età di 56 anni, dopo decenni trascorsi a sacrificare i propri interessi e desideri per gli altri, lascia il marito per intraprendere da sola un lungo viaggio attraverso la Cina, ed assaporare finalmente libertà e indipendenza, diventando con le sue avventure una star dei social, con più di cinque milioni di follower su diverse piattaforme.

Come molte altre donne della sua generazione, la protagonista – interpretata da Yong Mei, migliore attrice al Festival di Berlino nel 2019 –  ha vissuto sacrificando i propri sogni e bisogni per gli altri, ricevendo in cambio solo sfruttamento e umiliazioni: prima un padre autoritario che le nega il diritto allo studio, poi un fratello che la sfrutta lavorativamente senza riconoscimenti, infine un marito rozzo, taccagno e tiranno che la priva anche della dignità.

Ma se la madre, vittima di una cultura patriarcale, rappresenta un’epoca in cui il sacrificio femminile era la norma, la figlia, invece, vive una relazione molto più sana, dove il rispetto è centrale, rifiutando l’idea stessa del sacrificio come destino inevitabile della donna.
Eppure, nonostante i cambiamenti, il film non lascia spazio a illusioni: anche la nuova generazione deve ancora lottare per affermare la propria autodeterminazione, seppure con strumenti e sfide diverse.

Ed anche se per anni la figlia ha sostenuto la madre, comprandole anche un’auto per aiutarla ad emanciparsi dal padre- quando arriva il momento del tanto agognato viaggio, è lei stessa a chiederle di rimandare. Ha bisogno di aiuto con i figli. Il lavoro è “feroce”, non lascia margini: e se vuole fare carriera, o anche soltanto non essere licenziata nuovamente niente permessi, niente orari flessibili, nessuna rete. Anche chi rifiuta il modello del sacrificio si ritrova a farci i conti. Solo con parole nuove, in contesti diversi. E il peso, spesso, rimane lo stesso.

Se Like a Rolling Stone racconta la fatica di spezzare le catene della sottomissione in una società patriarcale, Her Story celebra con leggerezza la rinascita femminile una volta che quelle catene sono state spezzate. È il secondo film di Shao Yihui, tra le registe protagoniste della nuova onda femminista del cinema cinese.

La storia segue Wang Tiemei, giornalista affermata che, dopo il divorzio da un marito disoccupato, decide di cambiare drasticamente stile di vita, per dedicarsi alla figlia Moli, una bambina vivace e arguta. Tiemei, donna pratica e resiliente, accetta un lavoro part-time e si trasferisce in un decadente ma affascinante palazzo di Shanghai, simbolo della coesistenza tra modernità e passato.

Qui incontra Xiao Ye, giovane musicista ingenua e romantica, reduce da una relazione violenta e ora invischiata con un uomo immaturo. Le due stringono un’amicizia solidale, cercando insieme di ricostruire sé stesse. Attorno a loro, uomini smarriti di fronte a nuovi equilibri oscillano tra il sincero desiderio di capire e un comico disorientamento.

Con ironia e toni leggeri, Her Story rompe vari tabù – dal sesso al consenso, dall’omosessualità alle mestruazioni. Il messaggio è chiaro e potente, come dice Tiemei nel finale: “È grazie al nostro ottimismo e fiducia in noi stesse che possiamo affrontare le tragedie con coraggio”.

Ma il confronto con il passato può prendere varie forme, nel linguaggio cinematografico. In My Friend An Delie il confronto con il passato si sviluppa come una sorta di terapia psicoanalitica che ricostruisce, attraverso il vissuto del protagonista, un frammento di storia collettiva delle ex zone industriali del Dongbei. Una narrazione “on the road”, in cui il protagonista  Li Mo, che conduce una vita all’apparenza riuscita dopo essersi trasferito a sud per lasciarsi tutto alle spalle, si scopre emotivamente bloccato, faticando persino ad accettare di essere sposato e in attesa di un figlio. Sarà l’inaspettato incontro con l’amico d’infanzia An Delie, che aveva sepolto nei recessi della memoria, a costringerlo a confrontarsi con ricordi repressi ed a superare il suo passato. Lontano da ogni retorica, il film racconta come, in una Cina sempre più frammentata e impersonale, il bisogno di legami autentici resti una delle poche forme possibili di salvezza.

Quello che emerge dai film è il racconto corale di un Paese lanciato sì verso il futuro, ma con più disincanto, e meno ottimismo di prima,  un mosaico di vite fragili, resistenti e a volte disilluse. La Cina non è ferma: cambia, evolve, si reinventa. Ma lo fa con la speranza, non più con la certezza, che domani sarà migliore di oggi, e che andrà tutto “sempre meglio”— 越来越好yuè lái, yuè hǎo.

Di Roberta Moncada