La prima a provare a gettare acqua sul fuoco delle polemiche è Susan Stevenson, portavoce dell’ambasciata statunitense a Pechino. Per la diplomazia a stelle e strisce, la reazione del governo cinese all’incontro tra il presidente americano Barack Obama e il Dalai Lama era «prevedibile». Nessuna sorpresa quindi per la «solenne protesta formale» presentata dalla Cina all’ambasciatore Jon Huntsman, convocato al ministero degli Esteri cinese per chiarimenti.
Da almeno una settimana la Cina invitava Washington ad annullare il meeting. «Esortiamo gli Stati Uniti a comprendere il carattere molto sensibile della questione tibetana, e rispettare scrupolosamente il loro impegno sull’appartenenza del Tibet alla Cina e la loro opposizione all’indipendenza tibetana» recitava il comunicato del governo cinese. Ma ora che l’incontro tra i due Premi Nobel per Pace è avvenuto i toni si alzano e il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Ma Zhaoxu, non esita a parlare di «grossolana violazione delle norme che regolano le relazioni internazionali».
Non sono serviti a molto gli accorgimenti statunitensi per rendere la visita meno amara per i cinesi – il colloquio non è avvenuto nello Studio Ovale, riservato agli incontri con i capi di Stato, ma nella Stanza delle Mappe nella East Wing della Casa Bianca, non sono state ammesse le telecamere ed è stata diffusa una sola foto ufficiale con un cerimoniale ridotto al minimo necessario; l’incontro ha comunque suscitato la forte insoddisfazione di Pechino, «ferendo i sentimenti del popolo cinese». Spetta ora a Washington fare il primo passo per riparare i legami tra le due potenze, «seriamente danneggiati», avverte ancora Ma.
Un invito immediatamente raccolto dall’ambasciatore Huntsman che, a colloquio con il viceministro degli Esteri, Cui Tiankui, ha auspicato «passi avanti» e l’inizio di una nuova fase di collaborazione che «possa portare benefici ai due Paesi, alla regione e al mondo intero». L’insoddisfazione cinese, per quella che definisce «un’interferenza negli affari interni del Paese», non appare tuttavia una novità. Un caso su tutti il duro scontro con Parigi nel 2008, dopo l’incontro ufficiale tra il leader tibetano e il presidente Nicolas Sarkozy. Anche allora l’ambasciatore francese venne convocato dal ministero degli Esteri cinese e in tutta la Cina partì una campagna di boicottaggio contro le aziende e i prodotti d’Oltralpe.
Pechino continua a considerare il Dalai Lama, che dal 1959 vive in esilio in India, a Dharamsala, un pericoloso secessionista che attenta all’unità della Cina, arrivando a definire il leader tibetano «un lupo vestito da monaco». Intervistato dall’agenzia ufficiale Xinhua, il tibetologo Du Yongbin, ricercatore al China Tibetology Research Center, esprime apertamente le posizioni di Pechino. «Il governo tibetano in esilio, gli Stati Uniti e tutta l’opinione pubblica riconoscono il Tibet come parte del territorio cinese» spiega il professor Du. Come sottolineato a fine gennaio dopo i colloqui tra il governo cinese e gli inviati del Dalai Lama, che proponevano una maggiore autonomia della regione come previsto dalla stessa Costituzione cinese, ogni accenno o dibattito sulla possibile revisione della sovranità di Pechino sul Tibet è perciò fuori discussione.
Du va anche oltre e bolla come «manovra diplomatica» l’aver semplicemente voluto considerare il Dalai Lama un leader religioso e uno stimato premio Nobel, provando a ridurre così la portata politica del meeting. Ma «l’identità politica e religiosa del Dalai Lama non posso essere separate» continua Du. Un’apparente conferma di quanto più volte evidenziato dallo stesso Dalai Lama, critico contro i tentativi cinesi di politicizzare oltre il dovuto i suoi viaggi all’estero. Il «forte sostegno» alla causa dei diritti umani e dell’identità culturale e linguistica del Tibet mostrato dal presidente Obama ha invece scatenato la gioia dei tibetani. Secondo quando riporta Phayul, sito di informazione vicino al movimento tibetano, la notizia dell’incontro è stata accolta con grandi festeggiamenti e migliaia di persone sarebbero scesi per strada bruciando incensi e alzando in aria le bandiere di preghiera, unendosi così simbolicamente al Dalai Lama dettosi molto «molto felice» del colloquio con Obama.
Pur nella durezza dei toni, gli analisti sembrano però concordi nel minimizzare la portata dei danni alle relazioni tra i due Paesi. «Se comparato con la vendita di armi a Taiwan questo è solo un piccolo episodio» commenta Ji Zhu, direttore del World Economic Research Center della Beijing Technology and Business University.
[Pubblicato su Il Riformista il 20 febbraio 2010]