Quando l’e-waste si fa business

In by Gabriele Battaglia

Entro il 2020 il mondo sarà invaso dai rifiuti tecnologici. In Occidente si prova a favorire normative e il riciclo autorizzato. Ma sempre più spesso l’e-waste entra in un mercato illegale che porta in Asia e Africa. Dove lo smaltimento "informale" dei rifiuti dà lavoro a centinaia di migliaia di persone. Provate a buttare per terra, accanto ad un cassonetto della spazzatura, l’avanzo di un computer a Pechino o Delhi. Passeranno pochi minuti e l’oggetto scomparirà, per finire nelle casse di un tre ruote o di una bicicletta dal bagaglio improbabile.

E così accade per altra spazzatura: una raccolta differenziata informale, silenziosa, tollerata dai governi perché utile e in grado di garantire lavoro ad una parte della popolazione che altrimenti non avrebbe impiego. O peggio: non potrebbe più tornare alle attività agricole, in zone ormai contaminate dai rifiuti elettronici.

A cielo aperto o chiusi in bugigattoli: il tour dei rifiuti elettrici accomuna Cina e India. Rovinose camminate tra schermi sventrati, inusuali fermate alle porte di piccoli negozi da cui sbucano tastiere e cavi elettrici: è il mondo contemporaneo al contrario, quello fatto di rifiuti tecnologici, simbolo a proprio modo del mondo occidentale che senza guardare e senza sapere, il più delle volte, lascia morire i propri vizi ipermoderni in posti che sono noti solo a chi ci va. O a chi ci lavora, che è ancora peggio.

Chi non conosce la mirabolante sensazione di innovazione data da un nome come “Silicon Valley”? Tutti immediatamente associano a questa parola la creatività industriale per eccellenza del nostro secolo: microprocessori che sanno diventare tendenza sociale, telefoni in grado di connetterci al mondo. Chi invece conosce Guiyu o Silampur? Nessuno, probabilmente. E sono pur sempre luoghi collegati ai primi, illuminanti nella loro bruttezza, desolazione e pericolosità. Non sociale, bensì ambientale: sono i luoghi dove va a morire la tecnologia. Dove quella usata in Occidente si mischia a quella consumata in Oriente.

Per lo più si tratta di affari illegali, perché dalla avanzata Europa, proprio nel secolo degli smartphone e della possibilità di controllare tutto a distanza, il 75 per cento di quella che viene definita e-waste (in italiano Raee “rifiuti di apparecchiature ed elettroniche”) non si sa che fine faccia. Questione retorica, perché i ragazzini che scorticano tastiere, gli anziani che dividono monitor dalla loro carne di fili e cavi, sanno perfettamente dove finisce, la tecnologia.

E lo sanno anche gli organizzatori di un giro illegale di rifiuti che su questo traffico ci fanno una montagna di soldi, regalando spiccioli e malattie ai cinesi e agli indiani (quando non sono i pakistani, i nigeriani o i ghanesi) che ne raccolgono i moribondi residui elettronici privi di vita. O meglio in disuso, perché a guardare per le strade di Guiyu o per il mercato del rottame di Silampur, alcuni aggeggi sono in perfetto stato: sono fuori moda, da noi. Sempre verdi nell’emisfero orientale. E’ fatica, è malattia, ma è pur sempre un lavoro. Che aumenterà.

Secondo un rapporto dell’Unep (United Nations Enviroment Programme), chiamato “Riciclaggio – da E-Waste a risorsa”, in Sud Africa e Cina, ad esempio, si prevede che entro il 2020 i rifiuti elettronici dai computer usati saliranno dal 200 per cento al 400 per cento rispetto al 2007. In India l’aumento sarà del 500 per cento. Nel 2020 i telefonini che non serviranno più (ad ottobre Apple ha aperto il suo store più grande d’Asia a Pechino), saranno sette volte il numero attuale in Cina, diciotto volte in India.

Entro il 2020, i rifiuti di televisori saranno due volte più alti di oggi in Cina e in India, mentre in India, gli avanzi elettronici dai frigoriferi fuori uso triplicheranno. E dire che in Cina, in teoria, l’importazione di questi materiali è vietata. Come ha specificato Nie Yongfeng, vice direttore del Chinese Society for Environmental Sciences Solid Waste Committee, “l’importazione dei rifiuti elettronici – tra cui i computer obsoleti, batterie, telefoni cellulari, circuiti e stampanti – è vietata secondo il diritto cinese”.

Alle importazioni – illegali – di e-waste si aggiungono le cifre locali: la Cina – da sola – ne produce già circa 2,3 milioni di tonnellate (seconda solo agli Stati Uniti, con circa 3 milioni di tonnellate). E, pur avendo vietato l’importazione di rifiuti elettronici, rimane una delle discariche preferite al mondo. Delhi invece produce circa 32 tonnellate di rifiuti al giorno, ma le importazioni da altri stati sono circa il doppio. Come ha specificato il Times of India, “molto poco di questo effettivamente raggiunge discariche. Una parte di esso viene prelevato da riciclatori autorizzati, ma una gran parte di esso è smontato e lasciato tra la gente con pericolose conseguenze ambientali”.

In India il 97 per cento dei rifiuti elettronici viene raccolto in modo informale, scansando le leggi sul riciclaggio. Si tratta di un’agenzia di collocamento per circa 80mila persone. “Il settore informale è ben collegato, ha una presenza storica e offre incentivi fiscali per i consumatori sulla raccolta dei rifiuti”, ha raccontato al Time Abhishek Pratap, un attivista di Greenpeace India. “Offre sostentamento a un numero enorme di poveri lavoratori migranti”.

In Cina non è tanto diverso: lo smantellamento dei rifiuti elettrici – ha scritto la rivista cinese Caixin – crea molte opportunità di lavoro per la popolazione locale, “perché la spazzatura elettronica crea attenzione, soprattutto in un paese affamato di risorse naturali. D’altra parte, l’effetto negativo dei rifiuti elettrici è enorme: alcuni metalli come la diossina sono molto velenosi. I metalli tossici portano ad un grave inquinamento dell’aria, dei fiumi locali e del suolo”.

Prima di capire cosa stanno facendo – o sarebbe meglio dire, tentando – Cina e India per rimediare a questo fenomeno, c’è da capire come funziona il tour. Partiamo dal dato di Greenpeace secondo il quale, “si perdono le tracce del 75 per cento dei rifiuti tecnologici prodotti nell’Unione Europea e di oltre l’80 per cento di quelli originati negli Stati Uniti”. Può essere che una parte, specifica l’organizzazione, “sia ancora nelle case, nelle cantine e nei garage, o viene smaltito in discarica o inceneritore”, ma una buona parte invece viene esportata – illegalmente – “per finire in discariche incontrollate in Africa oppure a riciclatori clandestini in Asia”.

Perché? Perché utilizzando vecchi, bambini o in ogni caso adulti poco attenti ai rischi ambientali e personali, dalla spazzatura tecnologica si ricavano cose preziose, come ad esempio oro e argento. Secondo una ricerca condotta dalla e-waste academy e presentata sul sito internet stepinitiative.org, il valore della spazzatura elettronica sarebbe di oltre 21 miliardi di dollari. Tutto ciò che rappresenta la novità in campo elettronico, (smartphones, ebook readers, ad esempio) utilizza 320 tonnellate d’oro e 75mila tonnellate di argento all’anno.

E non solo, perché “il raccoglitore/spedizioniere chiede una cifra variabile tra i cinque e i dieci euro a pezzo mentre il destinatario africano, ad esempio, carica una cifra tra i 25 e i 75 centesimi a pezzo”, secondo quanto dichiarato a China Files da Roberto Ferrigno, direttore della Lumina Consult di Bruxelles ed esperto di politiche in difesa dell’ambiente. L’Unione Europea ha provato a ricorrere a normative: prima ha imposto ai rivenditori – refrattari storicamente – di ritirare e smaltire i prodotti in occasione di un nuovo acquisto (il cosiddetto uno contro uno), infine con un provvedimento dello scorso 24 luglio ha imposto agli esercizi commerciali di ritirare gratuitamente i prodotti in disuso, uno contro zero.

Nel prezzo dei Raee, noi paghiamo anche lo smaltimento dei rifiuti, come per la plastica e altri prodotti commerciali: secondo i riciclatori autorizzati, un desktop di 7 kg ha un prezzo medio di 8,61 euro. Il problema è che tra pochi centri di raccolta, cattiva educazione civica e business illegale, solo una piccola percentuale dei prodotti viene realmente smaltita in modo corretto. Secondo Ferrigno, “circa il 40 per cento dei rifiuti generati è oggi gestito da raccoglitori privati non registrati che quindi non garantiscono la tracciabilità del prodotto- rifiuto”.

Per alcuni di questi è molto facile garantire la spedizione illegale, attraverso due metodi: o viene assicurato il malloppo sui container facendolo passare come prodotto “usato”, anziché come “rifiuto”, attraverso una certificazione falsa, oppure il prodotto legale viene imballato e ammassato in modo da nascondere, semplicemente, quello illegale. Metodi senza rischi, alla luce del sole, e a quanto pare molto funzionali. “Vista la mancanza di sanzioni adeguate (multe miti e basta) – continua Ferrigno – e l’approfondirsi della crisi economica, appare difficile che l’obbiettivo di riciclaggio minimo del 65 per cento di e-waste entro il 2019 possa essere raggiunto”. E molto di quanto è sottratto al processo legale, come specificato, arriva in Asia.

Cina e India, a loro modo, ultimamente hanno provveduto ad occuparsi della questione. In India, dal primo maggio di quest’anno, sarà illegale scaricare un vecchio televisore, cellulare o computer portatile nel bidone della spazzatura o vendere uno di questi oggetti ad un “rottamatore” locale. “Le regole – ha scritto il ministero dell’ambiente indiano – consentono al consumatore di disporre della propria elettronica vecchia, solo attraverso tre mezzi, i centri di raccolta autorizzati, direttamente a qualsiasi riciclatore o all’azienda di produzione”. A dire il vero l’informalità della raccolta sembra proseguire nelle strade indiane, a dimostrazione di come non sia semplice sradicare una componente sociale e lavorativa ormai conclamata.

Come sottolineava Liu Qiang a direzione del China materials recycling association alla rivista locale Yicai, la Cina raccoglie il 90 per cento delle esportazioni illegali. Il rimedio, spiegava Liu, deve essere di sistema. Ed ecco che nell’ex Celeste Impero è stato creato un piano quinquennale – lanciato nel luglio scorso – che prevede la graduale eliminazione delle problematiche causate dall’inquinamento derivato dai rifiuti tecnologici lavorati in mezzo alla strada, attraverso la creazione di un percorso di certificazione tutto da consolidare.

I giornalisti della rivista cinese Caixin, che hanno visitato Long Tang, un’altra discarica a cielo aperto, hanno parlato con uno dei boss che gestisce il business, chiedendogli cosa succederà se il governo metterà al bando, di fatto, la sua attività: “non so quanto durerà, ha detto, appena smetterò, nel caso, torno ad allevare maiali”. Dove però, non l’ha specificato.

[Scritto per East; foto credits: ecouterre.org]