Centocinquanta operai edili cinesi hanno bloccato per protesta un’autostrada. Non si tratta di uno tra le migliaia di “incidenti di massa” che ogni anni disturbano “l’armonia sociale” tanto cara a Pechino. Teatro delle manifestazioni è infatti il piccolo stato insulare caraibico di Trinidad e Tobago. Arrivati diciotto mesi fa sull’isola, i lavoratori cinesi sono impegnati nella costruzione di due scuole, parte di un progetto multi-milionario, noto come Five Rivers, finanziato dal governo trinidadiano. Ormai da due mesi però gli operai aspettano i propri salari dalla ditta che ha in gestione l’appalto milionario, la Beijing Liujan Construction Corporation, un’azienda cinese di proprietà statale. E ai mancati pagamenti si aggiungono le condizioni di vita e lavorative ai limiti della schiavitù; con gli operai costretti a vivere stipati in tuguri malsani dove l’igiene e le sicurezza sono l’ultima delle priorità.
La rabbia degli operai cinesi si è così riversata per strada e la mattina del 13 ottobre hanno dato vita al blocco dell’autostrada. All’arrivo della polizia i manifestanti hanno raccontato agli agenti in quali condizioni sono costretti a vivere e lavorare e hanno accusato la ditta di impedire loro il ritorno in Cina. La risposta della Beijing Liujan Construction Corporation non si è fatta attendere. L’azienda ha ritirato i permessi di lavoro agli operai e informato le autorità che alcuni tra i lavoratori erano entrati nel paese irregolarmente, un’accusa rivelatasi falsa dopo i controlli del Dipartimento per l’immigrazione.
I lavoratori cinesi non sono però soli. Solidarizzano con loro la National Union of Government and Federated Workers (NUGFW) e la Communication Workers Union (CWU), le due maggiori confederazioni sindacali trinidadiane. Anche la Chiesa, attraverso la Commissione cattolica per la giustizia sociale, si schiera dalla parte dei centocinquanta cinesi denunciando quelle che definisce forme di «schiavitù moderna» e la «mercificazione» dei lavoratori.