La Cina ha un problema di soldi che circolano per canali non convenzionali, troppi. È il cosiddetto “credito ombra”, figlio di storture del sistema bancario cinese ma anche di un più generale trend internazionale, lo stesso che nel 2008 ha prodotto la crisi dei mutui subprime negli Usa. A ottobre, il presidente della Bank of China Xiao Gang aveva lanciato l’allarme dalle pagine del China Daily: ci sono in circolazione troppi wealth management products (Wmp, prodotti di risparmio gestito) – diceva – cioè troppi pacchetti per investitori “coraggiosi” (o temerari) che non si accontentano più di mettere i propri risparmi in banca, dove gli interessi sono bassi.
Il problema è che questi prodotti, puntando ad alti guadagni in breve tempo, rischiano di essere destabilizzanti: finiscono quasi inevitabilmente nella bolla immobiliare e, a volte, sono utilizzati per le vendite “short” (“allo scoperto”), il meccanismo puramente speculativo per cui si punta sulla rovina di un’attività economica più che sulla sua riuscita. Proprio come in Occidente.
Oggi il Financial Times torna sull’argomento dicendo che la bolla è più grande che mai e pressoché fuori controllo: “L’economista di Ubs Wang Tao ritiene che non sia inferiore ai 13.600 miliardi di Rmb (2mila miliardi di dollari), circa un quarto del Pil di quest’anno, ma potrebbe arrivare addirittura a 24.400 miliardi, cioè circa il cinquanta per cento del Pil”.
Un vero e proprio “schema Ponzi”, come l’aveva definito Xiao, cioè una catena di Sant’Antonio in base alla quale un investitore ha dei profitti che non derivano da attività produttive, ma dai soldi che lui stesso ha investito sommati a quelli di successivi investitori. Funziona finché nessuno chiede i suoi soldi indietro, dopo di che, il castello di carte crolla rovinosamente.
Che la Cina sia arrivata a questo punto non è sicuro. Certo è che il modello proposto un anno fa in via sperimentale per Wenzhou – la città dei piccoli imprenditori dove, per dare loro liquidità, si sperimentò una legalizzazione del “credito ombra” – sembra essersi tradotto immediatamente nel suo lato oscuro. Come in un buco nero, i soldi finiscono quasi sempre nel mattone. E il paradosso è che parte di questo flusso di denaro viene sottratto proprio alle banche di Stato, quelle che dovrebbero tutelare la stabilità del sistema.
Il China Daily registra il sesto mese di fila di crescita dei prezzi immobiliari su tutto il territorio nazionale. Anche nelle maggiori città, dopo un anno di tentativi “politici” per frenare la bolla, i prezzi hanno ricominciato a crescere. A Pechino e Shanghai, un metro quadro di terra edificabile costa tra i 33mila e i 36mila yuan (tra i 4mila e i 4.500 euro). Siamo ormai ai livelli delle maggiori città europee.
Il problema è che le stesse imprese di Stato, quelle che dovrebbero operare per il bene della Cina nel suo complesso e non solo per le tasche dei propri azionisti, puntano forte sull’immobiliare. La rivista economica Caixin rivela che una filiale del China Metallurgical Group ha stabilito un nuovo record, aggiudicandosi il lotto di terreno più costoso della storia cinese nel centro di Nanchino: 5,62 miliardi di yuan (quasi 700 milioni di euro).
È evidente l’interesse immobiliare che sta dietro all’intera operazione, alla faccia di una legge varata un paio d’anni fa che stabiliva che le imprese di Stato avrebbero dovuto stare alla larga dal mattone. I cinesi spiegano queste contraddizioni con una parola: corruzione.
Ma esiste una terza via, in Cina, tra credito bloccato delle banche di Stato e credito a rischio dei nuovi player finanziari di dubbia provenienza?
Caixin strizza l’occhio ad Alibaba, il grande gruppo dell’e-commerce che ormai da tempo si è messo sulla strada dei prestiti alle piccole imprese, come una vera e propria agenzia finanziaria.
Una fonte anonima rivela che tra aprile 2010 e luglio 2012 la sua divisione Aliloan (che potremmo tradurre con un evocativo “prestito di Ali Baba”) ha prestato più di 26 miliardi di yuan a oltre 129mila piccole imprese, spesso a gestione familiare, attraverso le sue piattaforme web aziendali. Che i soldi siano poi stati effettivamente utilizzati a fini produttivi non è dato sapere.
Il China Daily, da parte sua, prende posizione intervistando l’economista ceco Tomas Sedlacek che ammonisce contro le eccessive speranze in un’economia cinese “all’americana”: boom dei consumi basati sulla carta di credito. “Il consumo interno va bene – dice l’accademico 35enne – a patto che non si basi sul debito”.
Keynesiano moderato, con un occhio all’austerity, Sedlacek aggiunge che “il problema dell’economia mondiale non è che è depressa, ma che è maniacalmente depressa. Questo è il risultato di avere trasformato il nostro periodo felice in una vera e propria mania di consumo, e ora abbiamo a che fare con le conseguenze”.
Poi il giovane accademico offre la sua spiegazione biblico-apocalittica dello schema Ponzi: “Credito, tra l’altro, significa fede in latino. Se si decide di essere sospinti dal credito, si é sospinti dalla fede. La fede però funziona solo fino a quando tutti ci credono. Se ci si basa troppo su di lei, può destabilizzare l’economia”.
[Scritto per Lettera43; foto credits: foreignaffairs.com]