Pechino non risparmia i petizionisti

In by Gabriele Battaglia

In Cina la diseguaglianza sociale non accenna a fermarsi. Lo dicono i coefficienti economici ma anche fattori più evidenti. La detenzione di molti petizionisti nelle cosiddette "prigioni nere" è uno di questi. Dimostrazione che anche nell’era Xi sarà la repressione la migliore arma a garanzia dell’"armonia" sociale. Nella Cina che vede crescere la diseguaglianza sociale, per i poveracci la vita è sempre più dura: sarebbero infatti migliaia, almeno cinquemila, i cinesi arrestati lunedì 10 dicembre, giornata mondiale per i diritti umani. A riferirlo sono le fonti di Radio Free Asia, che hanno denunciato il fermo e l’arresto nelle cosiddette prigioni nere, di migliaia di “petizionisti”, giunti a Pechino dalle varie province per esporre le lamentele o chiedere diritti, nei confronti del governo centrale.

Nella Cina che ha appena concluso un faticoso cambio politico e che si affaccia ad una nuova stagione, tra crisi economica e bisogno di stabilità sociale, ogni data “sensibile” diventa un giorno a rischio per i suoi attivisti. Non solo infatti la giornata mondiale dei diritti umani, ma anche l’anniversario del conferimento del premio Nobel, nel 2009, a Liu Xiaobo, dissidente cinese condannato a undici anni di carcere: oltre agli arresti, infatti, ad alcuni noti attivisti locali sarebbero stato comunicate nuove misure cautelari.

Gli arresti di questi giorni hanno a che vedere con due pratiche tipiche del paese della Grande Muraglia: la petizione, ovvero l’abitudine – ancora in voga dai tempi imperiali – di recarsi nella capitale per sottoporre al governo centrale le manchevolezze di funzionari periferici, e la conseguente “reclusione” all’interno delle “carceri neri”, hei jianyu in cinese.

Si tratta di strutture detentive illegali, temporanee, spesso al centro della città, dove vengono rinchiusi i “petizionisti” prima di essere rispediti al loro paese di origine. Le “carceri nere” sono spesso anonimi palazzi – presenti anche nella città vecchia di Pechino – e costituiscono un motivo di grande imbarazzo per il governo cinese, come quando ne venne scoperta una in pieno centro nella capitale, dalla reporter di Al Jazeera, successivamente espulsa dalla Cina.

Il paradosso è che proprio una settimana fa centinaia di persone erano state rilasciate dalle carceri nere, lasciando intendere ad un primo gesto distensivo da parte del nuovo Imperatore Xi Jinping, segretario del Pcc, capo delle forze armate e da marzo anche Presidente della Repubblica Popolare, nei confronti delle persone che in Cina protestano.

I petizionisti, del resto, molto spesso sono povera gente che arriva dalle province più remote della nazione per denunciare mancati pagamenti di infortuni sul lavoro o fenomeni di corruzione di funzionari locali. Si tratta di poveracci, per la prima volta a Pechino, spesso catturati appena mettono il piede giù dal treno e rispediti in modo quasi sempre energico nelle proprie regioni di origine.

Si tratta di un fenomeno in crescita, date le attuali condizioni economiche del paese. Se infatti i dati di novembre hanno indicato una produzione industriale in crescita (10,1%), recenti ricerche condotte da enti universitari cinesi hanno sancito due dati preoccupanti per il Dragone: il coefficiente di Gini, che misura la diseguaglianza economica di un paese, è salito allo 0,61% (la media è 0,4), mentre la disoccupazione reale sarebbe all’8,1%, cifra che doppia quella fornita ufficialmente dalle autorità, mentre l’inflazione sale al 2% confermando la sensazione di un aumento vertiginoso del costo della vita in Cina, specie nelle grandi città (a Pechino i prezzi delle case arrivano ormai a 6mila euro al metro quadro). 

Alla nuova Commissione Permanente quindi un compito molto arduo: ancora prima di chiedersi quali saranno le riforme politiche ed economiche, la richiesta è quella di consentire al paese di tenere. Tra rivolte e proteste, infatti, la tensione sociale in Cina è palpabile e rischia di tramutarsi in un grave impiccio per il Partito Comunista, teso a ristabilire quel rapporto che sembra ormai perduto tra i suoi leader e il tanto decantato “popolo”.

Stando però alle prime avvisaglie, i metodi di Xi Jinping non sembrano discostarsi da quelli dei suoi predecessori: la repressione rimane lo strumento migliore, ad ora, per il controllo sociale in Cina. 

[Scritto per Il Fatto Quotidiano; foto credits: hrw.org]