Oggi in Cina – Terzo Plenum, i punti chiave per il futuro

In by Gabriele Battaglia

Il giorno dopo il Terzo plenum del Comitato centrale del Pcc rimangono alcune parole chiave: riforme di mercato, indipendenza del sistema giudiziario e lotta alla corruzione. La Cina nominata insieme ad altri paesi contestati come membro del Consiglio Onu sui diritti umani. I risultati di una ricerca sulla stirpe di Confucio. Il senso del Plenum

Riforme di mercato, indipendenza del sistema giudiziario, lotta alla corruzione. Sono questi i grandi temi sottolineati dal documento conclusivo del terzo plenum del Comitato Centrale del Partito comunista cinese, che dà la linea guida per il prossimo decennio. Il plenum non emette programmi specifici, ma “dà il tono”, indica al Paese quale sarà la direzione del futuro.
Il punto chiave del comunicato è il seguente: “Il settore pubblico e quello privato sono componenti altrettanto importanti di una economia socialista di mercato e le fondamentali basi dello sviluppo economico e sociale della nostra nazione”.

Per la prima volta nella storia della Cina moderna, il settore privato viene collocato allo stesso livello di quello statale. Nel 1993, il plenum giudicato storico, che instaurò il “socialismo di mercato”, poneva ancora il settore privato sotto il controllo e la vigilanza di quello pubblico. Alla radice dell’attuale trasformazione, la necessità di dare nuovo slancio all’economia del Dragone, che da tempo sembra avere leggermente rallentato. Sarà uno slancio qualitativo, più bilanciato e più eguale, almeno nelle intenzioni.

Da almeno trent’anni, l’economia è considerata dalla leadership cinese la struttura fondamentale su cui costruire qualsiasi trasformazione e quindi ha un ruolo di primo piano.

Ma anche l’annuncio di una maggiore autonomia del giudiziario – senz’altro meno atteso di quello relativo al mercato – è una svolta. Xinhua, l’agenzia stampa ufficiale, ritiene che sia finalizzato ad alcuni obiettivi politici: “Garantire che le persone siano padrone del proprio destino […] sotto la guida del Partito comunista”; “assicurarsi che il Paese sia governato in base alla legge” e quindi “fornire sostegno politico all’apertura e alla modernizzazione”.

Non manca un richiamo alla “democrazia di base”, il che significa che probabilmente saranno sempre più sperimentate forme di partecipazione politica a livello di villaggio.

La Cina a guardia dei diritti

La Cina, con Russia, Arabia Saudita, Vietnam, Cuba e Algeria, ha ottenuto un seggio al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, l’ente con sede a Ginevra che sovrintende e si esprime sull’applicazione dei diritti in tutto il mondo.
Sono queste le “new entry” che hanno sollevato maggiori proteste tra gli attivisti. Anche Gran Bretagna, Francia, Maldive, Macedonia, Messico, Marocco, Namibia e Sud Africa fanno parte dei 14 nuovi membri (su 47) che resteranno in carica per un periodo di tre anni.

L’Assemblea Generale ha così fatto entrare nuovi Paesi nel Consiglio che ha il potere morale di mettere in evidenza eventuali abusi, adottando risoluzioni specifiche. L’agenzia ha una rete diffusa di osservatori che monitorano i Paesi problematici e le principali questioni che riguardano i diritti umani, dalle esecuzioni agli attacchi dei droni.
Human Rights Watch ha osservato che cinque dei nuovi membri del Consiglio – Cina, Russia, Arabia Saudita, Vietnam e Algeria – si sono rifiutati di lasciare che gli investigatori dell’Onu ispezionassero il loro territorio per verificare presunti abusi. Cina, Russia e Algeria hanno 10 o più richieste disattese di visite da parte degli esperti delle Nazioni Unite, dice l’organizzazione made in Usa. Arabia Saudita e Vietnam hanno ciascuna sette richieste in sospeso.

Esemplare il commento di Hillel Neuer, direttore di Un Watch, anch’esso con sede a Ginevra: “Eleggere l’Arabia Saudita giudice del mondo in materia di diritti umani è come se in una città fosse nominato un piromane come capo dei vigili del fuoco”.

Tutti figli (e nipoti e pronipoti) di Confucio

Un gruppo di ricerca dell‘Università Fudan di Shanghai ha detto di aver trovato la prova genetica per dimostrare che la maggior parte delle persone che affermano di essere discendenti di Confucio provengono da un’unica linea di sangue.
Lo studio ha analizzato il Dna di decine di famiglie dello Shandong, la provincia natale del padre della cultura cinese. Disgraziatamente, dato che non è rimasta alcuna traccia del Dna dello stesso Confucio, è possibile stabilire solo che individui che proclamano di discendere dall’antico saggio hanno una linea genetica simile.

Nei secoli, i presunti discendenti di Confucio hanno sempre avuto onori e favori nell’ambito della società cinese, pratica poi interrotta con il rovesciamento della dinastia Qing e l’instaurazione della repubblica nel 1911. Il vecchio “maestro Kong” se l’è passata ancor peggio in epoca maoista, quando era giudicato il principale colpevole del “vecchiume” di cui era intrisa la società cinese.
Tuttavia, negli ultimi anni, il vuoto morale lasciato dalla fine del maoismo ha indotto la leadership di Pechino a riscoprire l’antico insegnamento del maestro e gli istituti Confucio proliferano in tutto il mondo come “longa manus” della cultura (e del soft power) cinese.

[Foto credits: ibtimes.com]