Dalla sua esperienza in Cina come consulente per grandi marchi stranieri, Mary Bergstrom ha tratto “All Eyes East", studio etnografico che prende in considerazione le nuove generazioni della Cina. E, in particolare, il loro approccio al consumo. L’intervista di China Files.
Nel tuo libro descrivi quella in atto in Cina come guerra tra generazioni. Da una parte i nati negli anni ’70, che si sentono in parte artefici del miracolo cinese, poi la generazione dei post anni’80, i primi a godere dei benefici della modernizzazione senza averne pagato il prezzo. Questi due fronti assistono alle intemperanze dei post ’90, nati in una Cina già potenza mondiale, cresciuti senza una memoria storica e preoccupati più della propria realizzazione personale che della collettività. Che ruolo giocano i media nell’infiammare queste contrapposizioni?
Certo i media hanno un ruolo nel rendere ancora più duro il contrasto ma sono anche uno strumento nelle mani dei giovani per esprimersi. Penso, ad esempio, a una serie di video che sono apparsi sulla rete qualche tempo fa e che in maniera ironica rappresentavano i difetti e i lati comici che ogni generazione vedeva nell’altra.
I nati negli anni ’80 accusavano la generazione successiva di essere vacua, egoista e di usare un linguaggio da marziani. I nati negli anni ’90 invece ribattevano esibendo la loro sfacciataccine e accusando i predecessori di essere legati a un mondo vecchio, senza futuro. Insomma la portata del dibattito in atto va ben al di la’ di schermaglie tra ragazzi, mettendo in discussione l’intero ordine sociale.
Parliamo di Han Han, una delle personalità cinesi note anche al pubblico straniero. Blogger, scrittore, campione di automobilismo e un sacco di altre cose, Han Han è nato nel 1982, come lo vedi in rapporto con la generazione a cui appartiene, almeno demograficamente?
Come ben sai Han Han è arrivato al successo con un romanzo, (Ndr. Le tre porte, edito in italiano da Metropoli d’Asia), a meta’ tra satira e una polemica contro il sistema educativo cinese. Lui stesso ha incarnato questa visione, facendo una cosa che la maggior parte dei suoi coetanei non avrebbero mai fatto: lasciare gli studi per dedicarsi a una carriera letteraria che, almeno all’inizio, non dava sbocchi certi.
Di conseguenza io lo vedo come appartenere solo demograficamente alla sua generazione, ma di fatto ne è fuori, ed ecco il motivo per il quale è diventato un modello per molti giovani, perchè fa esattamente quello che la maggior parte di loro non avrebbe mai avuto il coraggio di fare.
In una ricerca che ho svolto qualche tempo fa, ho evidenziato come l’avvento della società dei consumi abbia avuto un forte impatto sulla struttura famigliare e sull’usanza della dote nell’India contemporanea. Pensi che qualcosa di simile sia accaduto anche in Cina?
Anche in Cina esiste un vero mercato matrimoniale. Come ben sai genitori e agenti si ritrovano nei parchi la domenica mattina a presentare le credenziali dei propri figlie candidati. Se si fa un giro da quelle parti si accorge che la proprietà di una casa è diventata per i giovani la base fondamentale per poter anche solo pensare a sposarsi al di la’ delle buone prospettive di carriera.
Nei mesi scorsi alcune brand del lusso occidentale si sono involontariamente trovate al centro di scandali di vario tipo in Cina. Nei tuo libro accenni al caso di Guo Meimei, la giovane che lavorava per un organismo collegato alla croce rossa cinese e che, esibendo borse di Hermès e un parco macchine impressionante nel suo microblog, ha innescato uno scandalo che ha coinvolto l’organizzazione umanitaria. Oppure penso alla Ferrari guidata da un ventenne – rivelatosi poi essere il figlio del segretario di Hu Jintao – e che, dopo una notte di bagordi si è schiantata contro un muro a Pechino. Sono storie di ricchezze nelle mani di giovani privilegiati e che scatenano le ire della rete, sempre pronta a denunciare abusi. Pensi che le aziende del lusso siano preparate a fronteggiare il significato, anche politico, che certi oggetti stanno assumendo nel contesto cinese?
Prima di tutto è necessario che le aziende capiscano che i consumatori cinesi pretendono molto dalle brand straniere perché sono delusi da quelle cinesi. Sono un pubblico complesso, iper-informato e per nulla sprovveduto. Se le big player stranieri entrano nel paese con piani ben studiati si trovano spesso a dover affrontare situazioni inaspettate che richiedono delle vere e proprie task force che gestiscano il rischio, e non sempre sono pronte.
La cultura del consumo in Cina si sta costruendo, non esiste una tradizione, una storia del consumo a valle che faccia da scheletro e da punto di riferimento. Qui sta succedendo tutto per la prima volta, è una pratica al consumo che si costruisce giorno per giorno, e le aziende, specie quelle straniere, dovrebbero essere in grado di accompagnare i consumatori in questo nuovo percorso e proporre messaggi positivi e comprensibili a tutti.
In contrasto con le generazioni precedenti, tu decrivi quella degli anni ’90 come capace di staccarsi dalle convenzioni e iniziare un proprio percorso espressivo. Che contributo credi possa dare questa generazione al progetto cinese di passare da mero esecutore delle idee altrui a fucina di creatività?
Esistono certo degli hub di creatività e sperimentazione in Cina, ma non sono ancora la regola e rimangono per il momento esperienze a se. Il grosso problema è rappresentato dal sistema scolastico che non prepara all’espressione libera e non incoraggia la creatività. È da li che bisogna partire se si vogliono raggiungere dei risultati di lungo periodo.
Quali conseguenze pensi possano avere sul mercato dei consumi le diseguaglianze di genere – che si risolvono con una netta prevalenza di uomini rispetto alle donne- gia’ evidenti in Cina e destinate ad accentuarsi in futuro?
Le donne sono sempre in più una posizione di forza nella società cinese, a loro spetta la scelta. Questo non puo’ che creare una diffusa sensazione di insicurezza tra i ragazzi, da qui il grande boom dei prodotti di bellezza maschili e la grande cura del corpo.
Nel tuo libro parli a lungo delle subculture che starebbero sviluppandosi tra i giovani cinesi. Basti pensare a quei milioni di giovani che lavorano nelle fabbriche. Pensi che possano rappresentare anche loro un terreno fertile per la nascita di subculture?
Interessante prospettiva, non l’ho mai considerata da questo punto di vista. Immaginati tutti questi ventenni alla loro prima esperienza fuori di casa, lontani dal loro cerchio famigliare e di conoscenze, messi insieme ad altri ragazzi altrettanto sradicati. Quella che si va a creare è una situazione di grande caos, di libertà assaporate per la prima volta. Lavoro, frustrazioni, sesso, amore, amicizia, tutto insieme. Questi contesti mi fanno più pensare a uno stadio movimentato della loro esistenza che oggi come oggi non tende a diventare permanente perché nessuno è più disposto a fare della fabbrica il proprio futuro ma vuole evolversi in qualche modo.
Un’ ultima domanda: se dovessi descrivere a un ventenne occidentale cosa è davvero considerato “cool” da un suo coetaneo cinese, cosa gli racconteresti?
Dipende a che categoria di giovani mi sto rivolgendo, ma volendo fare un discorso molto generale, al di là degli oggetti, posso dire che quello che rende davvero un giovane speciale nella Cina di oggi è fare qualcosa, lavorare a un proprio progetto e avere il coraggio di metterlo in pratica.
*Nicoletta Ferro arriva in Cina nel 2007 come ricercatrice per la Fondazione Eni Enrico Mattei, per cui si occupa di monitorare i progressi del dragone nello sviluppo sostenibile e analizzarne le specificita’. Da sempre interessata alle dinamiche antropologiche legate al mondo dei consumi, nel 2009 realizza uno studio sugli effetti del consumismo sulla pratica della dote nell’India contemporanea, per poi allargare lo sguardo sullo scenario cinese. Attualmente lavora come consulente a Shanghai.