Il ritorno dello sciamanismo in Mongolia è un fatto sia religioso, sia economico, sia politico. La ricoperta di antichi culti e credenze, sepolti durante il socialismo, restituisce un’identità e permette a qualcuno di sbarcare il lunario. E, nel Paese investito dalla "terapia shock" del mercato, c’è chi crede nel ritorno di Genghis, il più grande tra gli sciamani. Leggi anche: Mongolia – Cosa resta della steppa
Lo sciamano tira su un paravento e dice alla ragazza di spogliarsi. Poi le fa bere del latte mescolato alla vodka che versa da una tanica. Comincia a suonare il tamburo alternativamente a dei cimbali, mentre pronuncia “chu-sisisisi”.
“Chu” si dice anche ai cavalli quando bisogna spronarli; lui sta invece scacciando lo spirito cattivo: “Vai, vattene”.
La cerimonia dura dieci minuti, poi l’uomo prescrive la ricetta: “Non puoi lavarti la testa per tre giorni e il corpo per sette. La faccia sì, ma solo con il latte”. La ragazza racconta che amici e familiari credono lei “abbia lo spirito” – sia cioè una potenziale sciamana – ma lui le spiega che oggigiorno tutti pensano di avercelo, quello spirito: “Non devi sforzarti per farlo entrare”.
Lei si riveste ed esce dalla ger – la yurta – mentre lo sciamano già risponde allo smartphone, un pataccone cinese con un “canto lungo” della tradizione Mongola come suoneria. L’uomo chiede a qualcuno dall’altra parte da quale regione vengano i suoi genitori. Diagnosi al telefono.
Ora tocca a un ometto dalla corporatura rotonda che ha fatto arrabbiare gli spiriti dell’acqua. Lo sciamano gli sputa della vodka addosso e ripete il rituale a base di “chu-sisisisi” e tamburo, sostituendo questa volta i cimbali con il khomus – lo strumento uguale allo scacciapensieri siciliano – mentre la voce di donna del cellulare ricomincia a “cantare” a tutto volume. Lo sciamano risponde e apprende che qualcuno è morto. Mugugna due parole, quindi torna all’uomo tarchiato e gli consiglia di schizzare per aria del latte nei pressi di Nalaikh, la semi fallita cittadina carbonifera a sud di Ulan Bator.
Poi c’è un tipo di mezza età i cui genitori “avevano lo stesso sangue” e perciò lui ora ha problemi in famiglia. Qui la cura è semplice: “Prega Tengri”, il cielo. Insomma, quattro Padre Nostro e dieci Ave Maria.
Byampadorj Dondog è uno “sciamano di Stato”. L’unico – si dice – che possa entrare in contatto con lo spirito di Genghis Khan. Una specie di Arcivescovo di Canterbury di 68 anni, massiccio, con i radi capelli che finiscono in un treccia sulla nuca. È anche scrittore e poeta, perché chi parte per il “viaggio” – cioè pratica la trance – ha di solito anche il dono della creatività. Del resto non è lui a comporre, bensì lo spirito che, tramite lui, parla. Riceve tutti i giorni dalle 12 alle 15 in una ger alla periferia di Ulan Bator, montata sul terrazzo di un centro sciamanico che è sovrastato da un ovoo, il cumulo cosparso di quelle sciarpe azzurre che rappresentano Tengri. Byampadorj interpreta un antico complesso di credenze che, superata l’era del socialismo mongolo grazie alla trasmissione orale, trova con gli anni Novanta nuova linfa.
“Lo sciamanesimo nasce e procede più o meno parallelamente sia nell’area intorno al lago Baikal, sia in quella dell’odierna Mongolia, più a sud, fin dal quarto millennio prima di Cristo”, spiega l’antropologo David Bellatalla, che vive a Ulan Bator e bazzica in Mongolia dall’inizio degli anni Novanta. Consiste nell’evocazione degli “spiriti adiutori”, cioè le entità che hanno iniziato l’individuo allo sciamanesimo e che continuano ad assisterlo durante la trance. Spesso sono spiriti del clan, cari estinti tutt’ora presenti nella vita dei vivi: non vogliono staccarsene. Ci sono due tipi di riti: quelli per compiacere i cari estinti, in cui li si invita a casa dello sciamano e li si intrattiene con cibo e bevande; e quelli che risolvono i problemi dei vivi. Come nella ger di Byampadorj.
Quando il buddhismo arriva da sud nei primi secoli dopo Cristo, comincia a penetrare contaminando e lasciandosi contaminare dallo sciamanesimo; più a nord, nell’attuale Buriazia russa e su fino al cuore della Siberia orientale, il sistema di antiche credenze continua invece a mantenersi in qualche modo al riparo. Ma contatti e mescolanze tra sciamani mongoli, tuvani, buriati e uiguri proseguono fino all’età moderna.
La provincia mongola nord-orientale del Dornod è un luogo simbolo della rinascita sciamanista. Lì, in epoca staliniana, emigrano i transfughi buriati che fuggono dalla persecuzione dei propri culti e, quando l’Urss crolla, sia da una parte sia dall’altra del confine fanno velocemente conoscenza con la terapia shock dell’economia di mercato. Cominciano così a imputare la propria condizione di stenti e incertezze a una vendetta degli spiriti originari, che li vogliono punire per averli abbandonati durante i settant’anni di ateismo di Stato.
Simile è il destino dei mongoli più a sud che in epoca socialista – secondo l’etnologo Manduhai Buyandelgeriyn – pur vivendo una quotidianità sonnacchiosa e lenta, in un regime di scarsità generalizzata, godevano di una certa sicurezza offerta dal governo che, sussidiato dall’Unione Sovietica, aveva eliminato morti per fame, sifilide, analfabetismo e problemi abitativi. Quando nel 1989-90 c’è il cambio pacifico di regime, la violenza del capitale si innesta sui buchi lasciati dal fallimento socialista. Fine delle sicurezze e nessuna opportunità.
Qui lo sciamanesimo rinasce, perché offre una spiegazione alle sciagure personali e collettive. Nei primi rituali post-socialisti, gli spiriti si manifestano accusando i discendenti di averli dimenticati, li prendono in giro sulle loro odierne disgrazie e li minacciano di infliggere ulteriori pene. Chiedono anche che alcuni membri della famiglia diventino sciamani per mettersi al loro servizio.
Ed ecco la proliferazione. Molti sciamani si rivelano tuttavia praticoni nati proprio sull’onda del mercato – per vivere ci si inventa un po’ di tutto – il che, paradossalmente, provoca l’ulteriore boom della “professione”, perché si cercano rituali sempre più sofisticati e sciamani sempre più bravi. La competizione si innesta sulla tradizione: il socialismo ha distrutto gli sciamani veri, il mercato ha creato quelli finti, non eletti cioè dai propri spiriti originari ma motivati dal denaro.
Come si distingue chi è posseduto dallo spirito da un impostore?
Nel 2010 partecipai a un rito in una ger di Chingheltei, la periferia nord di Ulan Bator che è un’enorme favela. Qui, una sciamana di etnia tsaatan mi fece sganciare sessantamila tugrik – circa 26 euro – per risolvere il mio “problema” consistente nel fatto di essere uno scapolo inveterato. Naturalmente non erano mica per lei, bensì un’offerta allo spirito. Mi fece inginocchiare di fronte ad alcuni ritratti di Genghis Khan e diede inizio al rituale. Nell’audio che riascolto oggi – mi ero tenuto in tasca il registratore digitale – si sente una voce roca che recita una nenia, interrotta ogni tanto da uno scroscio e accompagnata da un rumore, come di un tappeto che sbatte: la donna mi sputava in testa la vodka che io stesso avevo “offerto” allo spirito e ogni tanto mi frustava con un bastone a cui erano attaccati degli stracci lacerati, tipo il Mocio Vileda. Quello era un idolo.
Sullo sfondo, si sente la televisione accesa che trasmette una telenovela coreana. Il tutto durò circa venti minuti e, alla fine, mi disse che avrei senz’altro trovato la donna della mia vita. Nel giro di due anni.
“Io non ci credo, ma confesso di avere visto cose incredibili”. Alfredo Savino è un milanese che vive da sette anni in Mongolia, dove ha fondato la cooperativa di guide Sain Sanaa (“Buona Idea”). Ha viaggiato, ha osservato. “Una volta, una sciamana in trance che avrà avuto settant’anni si è arrampicata come uno scoiattolo su per un albero, l’ho visto con i miei occhi e non riesco ancora a spiegarmelo”.
“Se qualcuno proclama di essere uno sciamano – spiega Bellatalla – è un imbroglione. Quando negli anni Novanta facevo ricerche sullo sciamanesimo buriate, solo dopo settimane trascorse in qualche villaggio scoprivo magari che l’innocua vecchia che mungeva le vacche era la posseduta. Il rito è riservato alla famiglia perché lo sciamano si mette in contatto con gli spiriti del clan, mica con gli spiriti a caso. Se ti fanno partecipare appena arrivi, sono sciamani per turisti”.
Ma lo sciamanesimo non cura solo le afflizioni dei vivi. Oggi cura anche i problemi identitari della Mongolia in transizione, sempre più assediata non solo dalle multinazionali minerarie, ma anche da religioni d’importazione. Le antiche credenze provano a istituzionalizzarsi per contrastare l’appeal di buddhismo, islam, cristianesimo.
Nonostante abbia l’imprinting governativo, Byampadorj non ama i politici: “Mi chiamano per le manifestazioni ufficiali, ma non seguono davvero Tengri. C’è il lama buddhista, i musulmani, i cristiani, e invitano pure me”. Se si obietta che pure Genghis Khan era per la totale tolleranza religiosa, risponde: “Sì, tollerava tutti, ma lui credeva solo in Tengri”. Tra i neo-sciamanisti, c’è desiderio di una religione di Stato che li tuteli e tenga insieme riti ancestrali, orgoglio mongolo e il Khan dei Khan.
La professoressa Zulaagiin Bat-Otgon è una celebrità. Insegnava fisica e matematica, poi ha sentito una “voce interiore” che la induceva alla ricerca spirituale. Ha quindi sperimentato diversi culti e religioni, fino a trovare le sue risposte nella “intelligenza del cielo mongolo”, come la chiama lei.
In Occidente è noto come tengrismo.
“Non c’entra con tamburi, guarigioni e rituali”, spiega Bat-Otgon. “È a un livello superiore. Il böö del tengrismo non è uno sciamano. Lui non comunica con gli antenati, bensì direttamente con il cielo, raccogliendone l’energia”.
La donna disegna su un foglio un cono con la punta rivolta in alto. “Lo sciamano sta ai piedi del monte, il böö in cima. Il più famoso è Genghis Khan, che non aveva bisogno di tamburi e altri oggetti per portare in terra l’energia del cielo. E infatti ha creato il più grande impero di pace al mondo. Un böö di tale potenza nasce ogni mille anni”.
Lo sciamano degli sciamani di cui si attende il ritorno è lui: Genghis. Millenarismo mongolo. Bat-Otgon scarabocchia sul foglio una stella di David. Non le piace quella punta rivolta verso il basso, a cui contrappone lo slancio verso il cielo del suo cono-montagna. Aggrotta le sopracciglia e tira una riga decisa sull’esagramma. Questo, a occhi europei, ha un non so che di inquietante.
[Scritto per "Il Venerdì" di Repubblica]