Domenica 16 marzo il podcaster MAGA Lex Fridman ha pubblicato sulla sua pagina Youtube (4,6 milioni di iscritti) un’intervista di più di tre ore col primo ministro indiano Narendra Modi. Il video, doppiato grazie all’AI in inglese, hindi e russo, ha immediatamente generato enorme interesse – e orgoglio – sui media mainstream indiani, grazie all’enorme popolarità di cui Lex Fridman (41 anni) gode negli Stati uniti.
Fridman è un ricercatore impegnato nell’ambito dell’intelligenza artificiale, ha lavorato anche per Google e al momento è affiliato al Massachusetts institute of technology (Mit), con cui continua a collaborare parallelamente alla sua carriera di podcaster.
Dal 2018 le puntate del suo Lex Fridman Podcast sono state visualizzate da centinaia di milioni di utenti e includono “interviste” con persone note in ambito scientifico e, sempre di più, in ambito politico. Le virgolette sono d’obbligo: Fridman sostiene che il proprio modello di conduzione di queste chiacchierate punti tutto sull’“empatia” con l’intervistato, che è un modo elegante di descrivere ore di scambi in cui Fridman effettivamente permette a chi ha di fronte di dire qualsiasi cosa, senza contestare falsità plateali né con delle critiche dirette né con domande anche solo vagamente degne di questo nome.
Con Fridman si sono intrattenuti in queste amabili chiacchierate-fiume il presidente statunitense Donald Trump (durante la campagna elettorale), Elon Musk, il presidente argentino Javier Milei, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, più una sfilza di vip dell’area Maga come Ben Shapiro, Joe Rogan, Tucker Carlson e Jordan Peterson, tra gli altri: se non siete appassionati del genere fatevi un giro su Wikipedia per soppesare le loro posizioni in materia di diritti, immigrazione, welfare e geopolitica.
Tornando alle cose indiane, l’ospitata di Modi da Lex Fridman è parte di una strategia di propaganda consolidata dove il primo ministro indiano ha l’opportunità di sedersi di fronte a un intervistatore apparentemente neutro e di raccontare indisturbato un’India con pochissima aderenza con la realtà.
Esercizio che Modi e Fridman svolgono alla perfezione affrontando parecchi temi potenzialmente spinosi, su cui un giornalista o una giornalista avrebbe molto da chiedere a Modi. Di domande, invece, Fridman non ne fa.
L’elenco potrebbe essere estremamente lungo, quindi mi limito a evidenziare alcune porzioni dell’intervista che ritengo particolarmente problematiche e che potete consultare direttamente grazie alla divisione in capitoletti che Lex Fridman ha predisposto per i suoi video.
Le cose si incrinano subito, quando Fridman, che è in India già da qualche giorno, prima di iniziare con le sue domande confida a Modi di essere nel bel mezzo di un digiuno durato ormai 45 ore e funzionale a entrare nella giusta “condizione mentale e spirituale” per parlare col primo ministro indiano.
Anche Modi dice di digiunare in concomitanza con appuntamenti importanti della sua vita politica (lo ha fatto, ad esempio, poco prima della pubblicazione dei risultati delle ultime elezioni generali) e infatti si complimenta con Fridman dicendosi “sorpreso e onorato” per il suo digiuno.
È uno scambio di cortesie molto indicativo che conferma immediatamente al pubblico un’idea promossa con insistenza dalla macchina della comunicazione di Modi all’estero: Modi non è un politico come gli altri, è il primo ministro di un paese sinonimo di spiritualità e quindi meritevole di una considerazione riservata solitamente a figure più religiose che laiche; non è un politico, è un saggio, un po’ mistico, molto devoto, prestato alla politica per amore della nazione.
Concetto che Modi riesce a sviluppare serenamente per quasi un’ora, ripercorrendo con Fridman gli episodi salienti della sua vita dedicata al servizio della patria indiana fino ad arrivare alla descrizione della Rashtriya swayamsevak sangh (Rss), l’organizzazione paramilitare estremista hindu a cui Modi si è unito dall’età di otto anni e che lo ha formato non solo come politico, ma come uomo.
La Rss, considerata l’organizzazione di estrema destra più grande del mondo, dalle parole di Modi sembra un’associazione benevola di boy scout che insegna ai propri adepti l’amore per la patria e per il resto del mondo, assieme ai principi fondanti della religione che noi chiamiamo induismo.
Il fatto che le frange dell’Rss, in quasi un secolo di attività, si siano macchiate di crimini violenti ripugnanti, a partire dall’assassinio del Mahatma Gandhi fino alle sistematiche spedizioni punitive contro la minoranza musulmana indiana, nel podcast non viene menzionato.
Come non viene menzionato nemmeno il ruolo delle sigle dell’estremismo hindu nei pogrom anti-musulmani del 2002 in Gujarat, quando Narendra Modi era capo governo locale: una mattanza documentata per filo e per segno per cui sono finiti in carcere alcuni compagni di partito di Modi e alcuni tra i nomi di spicco della galassia ultrahindu che rappresenta una grossa fetta dell’elettorato di Modi.
Sul Gujarat del 2002 Modi riesce a parlare per quasi un quarto d’ora senza mai pronunciare una sola volta la parola “musulmano”, nonostante le vittime tra la prima minoranza religiosa del paese si siano contate letteralmente a migliaia. Anzi, inscrive l’esplosione di violenza nel “suo” Gujarat in una sequenza di attentati terroristici quasi tutti di matrice musulmana (dalle Torri Gemelle di New York all’attentato al parlamento indiano del 2001), tratteggiando un quadro quantomeno parziale di uno scontro intercomunitario esploso dalla scintilla dell’incendio di un treno di pellegrini hindu a Godhra (53 morti), fino a coinvolgere l’intero stato del Gujarat con folle di estremisti hindu armati di pistole e sciabole mandati a rastrellare quartiere per quartiere, casa per casa, le famiglie musulmane.
In politica estera prevale invece il tema dell’amicizia: Modi dice di essere amico personale di Trump e ne tesse a lungo le lodi come leader deciso e acuto; ma è anche amico personale di Xi Jinping, il presidente cinese, con cui conta di stringere una collaborazione più serrata presto, onorando la storia di Cina e India raccontate come superpotenze dal passato eccezionale.
Niente gli viene chiesto, e quindi niente dice, sul confronto in corso tra India e Usa in materia commerciale, sulla minaccia dei dazi di Trump, sulle misure che il governo indiano intende adottare per accordarsi con o opporsi agli Stati uniti; e niente nemmeno sui rapporti non esattamente idilliaci con la Cina di Xi Jinping.
Solo parlando di Pakistan Modi mette da parte l’approccio bonario e amichevole che intrattiene invece col resto del mondo, incolpando Islamabad per i rapporti tesi che interessano l’Asia meridionale da quasi un secolo, lasciandosi anche andare a sparate tipo “ovunque nel mondo colpisca il terrorismo, la scia porta direttamente al Pakistan”.
La puntata si chiude come era iniziata: Fridman riprende il tema del digiuno e della preparazione spirituale dicendo di aver provato a memorizzare in questi giorni il Gayatri Mantra, che lo ha aiutato a concentrarsi mentre metteva a punto l’intervista. Chiede quindi a Modi se può accompagnarlo in una breve sessione di meditazione pronunciando insieme il mantra, dando l’assist al primo ministro per tessere le lodi della meditazione e della ripetizione dei mantra come strumento in grado di offrire enormi benefici in termini di salute mentale e concentrazione.
È la ciliegina sulla torta di una rappresentazione dell’India e di Modi confezionata su misura per un pubblico internazionale, dove l’India e il suo primo ministro sono raccontati come entità benevole, mansuete, spirituali e fondamentalmente pacifiche. Omettendo i numerosissimi aspetti controversi che hanno caratterizzato l’India di Modi negli ultimi undici anni.
Perché succede ora? E perché succede in un podcast molto diffuso nell’area Maga e quindi tra i sostenitori di Trump negli Stati uniti?
Credo sia in corso un avvicinamento plateale dell’India di Modi agli Stati uniti di Trump, in controtendenza con le preoccupazioni e le ansie che condividono invece gran parte della comunità internazionale.
Se questa sia una strategia che pagherà in termini di peso specifico in un nuovo ordine mondiale che stiamo vedendo formarsi davanti ai nostri occhi negli ultimi mesi è ancora presto per dirlo, ma c’è un dato particolarmente interessante che probabilmente ha spinto la macchina della propaganda di Modi ad accettare questo incontro con Fridman: secondo un recente sondaggio di Yougov, pubblicato dal Washington Post, il 70% delle persone statunitensi a cui è stata chiesta un’opinione sul primo ministro Modi ha risposto di non conoscerlo abbastanza per averne una. E chi lo conosce ha un’opinione tendenzialmente negativa.
Raddrizzare la narrazione del primo ministro affidandosi a un podcaster vicino alla galassia trumpiana, in questo senso, sta già contribuendo enormemente a inculcare in milioni di statunitensi l’idea che l’India di Modi possa essere un punto di riferimento internazionale, che non sia una minaccia ma chissà, forse potrebbe essere l’alleato di ferro che gli Usa stanno cercando nel continente asiatico.
A cura di Matteo Miavaldi