La visita del primo ministro Narendra Modi in Cina è arrivata con un tempismo perfetto, nell’ottica di NaMo. Con le polemiche che iniziano a montare in patria sulla sua sostanziale inconcludenza proprio quando la sua amministrazione compie un anno in carica, Modi trova l’opportunità di fare quello che senza dubbio gli riesce meglio: costruire il proprio personaggio e la sua personalissima Vision dell’India dall’estero.
Le visite all’estero di Modi, pare ormai chiaro, sono organizzate maniacalmente all’insegna dell’infotainment, cioè facendo coincidere a occasioni solenni e istituzionali (noiose e che non agganciano il pubblico) momenti e stratagemmi di puro racconto epico, attorno ai quali si crea di volta in volta un entusiasmo pop che possa coinvolgere l’audience interna e straniera.
La trama della visita di Modi in Cina ha previsto un primo giorno di accoglienza a Xi’an, città natale Xi Jinping. Il presidente cinese ha accolto il premier indiano "a casa sua", come lo stesso Modi fece alcuni mesi fa in Gujarat.
In mancanza di folle di indiani festanti ad acclamare il proprio leader (presumiamo che a Xi’an non ce ne siano abbastanza), l’entourage di Modi ha probabilmente architettato il trick dell’occhiale da sole: NaMo, in visita privata al museo dei guerrieri di terracotta, si è fatto immortalare tra le statue simbolo della Cina nel mondo agghindato con lenti oscurate che emanavano swag come materiale radioattivo. E le foto di NaMo versione aggressiva soft di fronte a un guerriero di terracotta feticcio della Republica Popolare, ovviamente, hanno sbancato la rete.
Il secondo giorno, a Pechino, lo show itinerante di Modi ha visto la partecipazione di Li Keqiang, premier cinese, col quale Modi ha firmato una serie di accordi commerciali per il valore di 10 miliardi di dollari, arricchiti dall’evocativo gemellaggio di tre città indiane (Chennai, Hyderabad, Aurangabad) con tre città cinesi (Chongqing, Qingdao, Dunhuang, rispettivamente), portando la sorellanza urbana sino-indiana a quota sette coppie (ci sono anche Ahmedabad-Guangzhou, Delhi-Beijing, Bangalore-Chengdu, Kolkata-Kunming).
Nel pomeriggio di alleggerimento post firma, Li Keqiang ha accompagnato Modi a uno spettacolo dimostrativo di yoga e taiqiquan, sempre all’insegna dei legami tradizionali tra i due paesi stavolta declinati alle pratiche fisico-spirituali. A margine della solita particina in cui Modi esalta le virtù dello yoga, il premier indiano ha sfoderato l’altra arma di distruzione di (pubblico di) massa nel suo arsenale: il selfie.
L’autoscatto con Li Keqiang (politico che sarebbe riduttivo definire algido) sono state condivise sia sull’account Twitter, sia su quello Weibo (il "Twitter cinese", semplificando molto) di Narendra Modi, immortalando un momento topico di mass comunication da parte di un premier indiano paragonato pochi giorni fa (giustamente!) al presidente americano Richard Nixon, che negli anni ’70 (assieme a Kissinger) contribuì a far uscire la Repubblica popolare dall’isolamento internazionale.
Ora, direte voi, ci hai dato in pasto una pagina di fuffa senza dirci sostanzialmente nulla di concreto uscito da questi primi due giorni di visita di Modi in Cina! Embé?
La carrellata di fuffa non è casuale, poiché ricalca nel modo più fedele possibile la copertura indiana dedicata a questi tre giorni. Tutti questi episodi assolutamente risibili riempiono le pagine dei giornali e danno l’opportunità a Modi di tornare a casa con "qualcosa", siccome le vere questioni aperte tra Cina e India sono rimaste invariabilmente appese a quel senso di inconcludenza ormai tradizionale sull’asse New Delhi – Beijing. E qui andiamo per punti.
Questione dei territori contesi
India e Cina "litigano" da oltre cinquant’anni sui confini himalayani che dividono l’Arunachal Pradesh dal Tibet: confini immaginari e per ora ancora immaginati, poiché in mancanza di un accordo netto tra le due potenze, in quei territori c’è una fascia di alcuni chilometri di "terra di nessuno", che Pechino usa ciclicamente per innervosire il vicino indiano, ad esempio facendo storie sul rilascio dei visti d’ingresso in Cina ad alcuni cittadini dell’Arunachal Pradesh (che, se residenti vicino al "confine", la Cina considera connazionali e quindi non gli dà il visto, di fatto bloccandoli al di là del confine di fronte al rifiuto delle autorità indiane ad espletare le pratiche di espatrio in mancanza di visto).
New Delhi e Pechino da anni tengono delle tavole rotonde per discutere su come risolvere la questione, appuntamenti che puntualmente finiscono nel nulla mentre i cinesi costruiscono infrastrutture e strade in territori considerati da Delhi "indiani", senza permesso. E anche stavolta, Modi e Li Keqiang si sono limitati ad esortare le parti a una collaborazione costruttiva, cioè a dirsi "andiamo avanti così e amen".
Questione degli investimenti cinesi in Pakistan
Tema abbastanza caldo in India, che Modi ha giustamente sollevato energicamente nei colloqui con Li. In soldoni, la posizione dell’India è: non possiamo collaborare a cuor leggero e aiutarci nel mutuo sviluppo se voi ve ne andate a Islamabad e gli promettete 46 miliardi di investimenti senza dirci niente. La risposta cinese è stata: cerchiamo insieme di superare questi ostacoli che non permettono la piena espressione del nostro potenziale bilaterale (leggi: noi ormai quei soldi lì li abbiamo messi perché rientrano nei nostri progetti geopolitici da ANNI, e voi non potete farci proprio niente. Prendetevela a bene, orsù).
Ancora più nel dettaglio, Modi ha mostrato l’insofferenza indiana di fronte ai piani infrastrutturali che la Cina intende potare avanti, in accordo con le autorità pakistane, nei territori del cosiddetto (in India) Kashmir occupato, ovvero la parte di Kashmir al di là del confine indiano che New Delhi considera roba sua "temporaneamente" nelle mani del nemico pakistano. NaMo, secondo quanto riportato dalle agenzie, ha chiesto alla Cina di "riconsiderare l’approccio ad alcune questioni" che impediscono il mutuo sviluppo di cui sopra. Li, come prevedibile, ha nicchiato.
Questione degli accordi commerciali in territorio indiano bloccati
Quando Xi Jinping venne in India l’anno scorso i due governi firmarono una serie di accordi, in particolare per la realizzazione di un paio di "poli industriali" cinesi in territorio indiano, quintessenza della campagna Make in India: noi ci mettiamo la terra e la manodopera, voi ci mettete i soldi e le tecnologie, producete a casa nostra ed esportate dove vi pare. A distanza di sei mesi è tutto fermo, condizione che innervosisce parecchio i businessmen cinesi abituati ad un pragmatismo fulmineo ostacolato dai lacciuoli della burocrazia indiana. I cinesi chiedono di darsi una mossa e l’India in teoria, almeno a livello legislativo, sta provando a farlo; ma se non ci sarà una svolta pratica (ossia, se le promesse di investimenti fatte in trance agonistica da annuncite non si concretizzeranno in strutture e attività produttive vere) l’immaginario collettivo di Make in India, sul quale Modi sta sostanzialmente puntando tutto, rischia di uscirne irrimediabilmente compromesso.
Questione Via della Seta che sta accerchiando l’India
Ne avevo già scritto qui concentrandomi sul lato acquatico del progetto di reti commerciali mondiali chiamato da Pechino "La nuova Via della Seta", un groviglio di accordi bilaterali e vie di comunicazione transnazionali che sta progressivamente isolando New Delhi. Negli ultimi anni Pechino ha consolidato la propria presenza economica in tutti gli stati confinanti con l’India, erodendo potenziale terreno di scambi che avrebbe potuto dare ossigeno all’espansione economica indiana. La Cina vorrebbe trattare l’India come tratta gli altri partner di questo progetto geopolitico: comprimari che seguano la leadership di Pechino. New Delhi non ha nessuna intenzione di stare al gioco e sta provando a creare una rete di collegamenti "alternativa" a quella cinese, pur nella consapevolezza che, ad oggi, un’espansione indiana non può essere nemmeno immaginabile senza mettersi in scia di quella cinese. Tra l’altro, partendo dall’handicap di una bilancia commerciale decisamente a favore di Pechino: il trade deficit indiano con la Cina, per quest’anno, si è attestato a 48 miliardi di dollari, in aumento di oltre il 30 per cento rispetto all’anno precedente. Situazione complicata dalla quale non è chiaro come – e se – Modi ne uscirà.
Modi ha concluso il suo tour cinese a Shanghai, dove in seguito a colloqui coi principali esponenti dell’imprenditoria cinese ha portato il valore degli accordi totali firmati in questi tre giorni a quota 22 miliardi di dollari. Promesse di affari che poi dovranno superare la prova della realtà burocratica indiana, ma che comunque segneranno un passo in avanti nell’opera internazionale di Narendra Modi.
Il bilancio può comunque dirsi positivo. La politica estera di Modi non avrà ancora raggiunto risultati concreti in termini di investimenti andati a buon fine, ma di certo ha già cambiato radicalmente l’idea di India che ha la comunità internazionale. Anche, in particolare, nei rapporti con la Cina, dove Modi se non altro ha avuto la determinazione di sollevare tutti i punti elencati qui sopra, evitando la figura da scendiletto che tanti leader internazionali fanno al cospetto dei potenti di Pechino.
Nel mix di pragmatismo, decisionismo e siparietti pop, Modi si riconferma un gigante della politica come in India non se ne vedevano da un bel po’.
P.S. Ma tutta la tiritera del Leone contro il Dragone? Che fine ha fatto?
[Pubblicato in versione ridotta su East online; foto credit: scmp.com]