Nel corso degli ultimi trent’anni, il Pcc è passato da partito rivoluzionario a partito meritocratico. Le università sono ora i luoghi principali di reclutamento per i nuovi membri dell’élite comunista. La selezione è dura, ma così la Cina si assicura un futuro. Può essere un modello?
Per dire del salto quantico e della forza del soft power cinese. Ancora in Italia stiamo a confrontare Occidente e Cina dando per buoni due modelli scontati: democrazia e dittatura. Laddove invece esiste un confronto meno da stadio, ormai il passaggio è compiuto. Influenti intellettuali internazionali, esperti di Cina e non solo, sono ormai concordi nell’affermare come i modelli in contrasto e in perenne confronto siano ormai la democrazia (occidentale) e la meritocrazia (cinese). Lo hanno fatto autorevoli autori, di recente, dopo la chiusura del diciottesimo Congresso, sulle pagine del Financial Times e del New York Times, dando vita ad un dibattito interessante, che sta già scatenando risposte, reazioni, precisazioni. E più di tutto conoscenza sul modello politico cinese.
Cosa significa dunque meritocrazia cinese contro democrazia occidentale? Significa forse che il modello politico cinese – non quello economico, si badi bene – può essere ormai un serio contraltare a quello occidentale? Sì e no. Sì perché manifesta una precisa preparazione dei «quadri» che ascendono al potere, no perché si nutre di storiche caratteristiche «cinesi» che risiedono, per essere tranchant, nel confucianesimo e nella filosofia cinese e nel peculiare sistema politico a partito unico, rimedio ad ora valido per governare la nazione più popolosa del pianeta.
Partiamo da due spunti, uno pratico e politico, l’altro più comparitivo e filosofico. Ad esempio: in Occidente nessuno sa chi sia Hu Chunhua. È un giovane funzionario cinese, nato nel 1963. A detta di molti esperti di Cina, è uno dei leader della sesta generazione – in Cina il ricambio è decennale e «generazionale» facendo partire la prima generazione di leader con Mao Zedong – più prossimo a diventare il capo dei capi nel 2022. Giornalisticamente parlando, potremmo dire che se non farà la fine di Bo Xilai bruciandosi per guerre interne, ha buone chanche.
Perché? Perché Hu Chunhua è nato in una povera famiglia cinese nel 1963, ma è stato il primo della sua leva a entrare nella prestigiosa Università di Pechino. Entrare nelle università elitarie in Cina è faticoso: si studia come dannati, si superano molte prove a cui partecipano milioni – non migliaia – di persone. Una volta laureato, pagandosi gli studi lavorando come carpentiere, Hu Chunhua ha chiesto al Partito di andare volontario in Tibet. Lì ha iniziato la sua carriera nella Lega dei giovani comunisti.
All’epoca segretario del Tibet era Hu Jintao: per questo Hu Chunhua è chiamato «Il piccolo Hu». Ha un padrino di tutto rispetto. Hu Jintao – attuale e uscente Presidente e numero uno cinese – lo nota e lo tiene sott’occhio. Hu Chunhua passa vent’anni di «formazione» in Tibet. Ruolo da funzionario e imparare come soffocare il nodo più pesante per la Cina, la resistenza tibetana. Finito il periodo tibetano, viene mandato in Mongolia. Si tratta di un altro test, insieme a quelli attitudinali, psicologici e teorici cui viene sottoposto. Hu Chunhua viene formato, da anni, come funzionario «top» in Cina. In Mongolia nel 2011 tiene a bada una potenziale miccia sociale, una rivolta etnica. La sopprime e poi fa liberare «gli innocenti». È promosso: ora è segretario del Partito dell’Hebei. La partita cambia: non deve dimostrare di sapersi destreggiare nelle difficoltà, ma in una situazione ideale, in una di quelle zone che chiameremmo «roccaforte rossa», se la Cina fosse un paese con elezioni. Hu Chunhua è pronto, probabilmente, ma deve aspettare ancora cinque anni per entrare nel Comitato permanente. La sua preparazione non è ancora finita.
In Cina la chiamano «meritocrazia dall’alto». C’è anche la «democrazia in basso», ovvero le elezioni, proprio come da noi, per eleggere i rappresentati dei villaggi e così a salire. E in mezzo come suggerisce l’esperto di affari cinesi Daniel Bell sul Financial Times, «spazio alla sperimentazione». Ovvero ecco il movimento cinese: la «intra party democracy», la sola democrazia che piace ai leader cinesi. Ovvero il tentativo di garantire l’ascesa dei migliori lasciando spazio al voto di altri eletti. Il modo con il quale vengono eletti i membri del Comitato centrale e su a salire è uno dei misteri della Cina: di sicuro queste forme di «elezioni» di un partito unico cambieranno: l’idea ormai assodata è che il numero dei nomi dei papabili sarà destinato ad aumentare. In mezzo, appunto, si sperimenta.
E veniamo al nodo filosofico: Francois Jullien è un grecista, che è andato in Cina per trovare il distacco giusto dal suo oggetto di studio. Giunto in Cina ha deciso quindi di comparare, diventando uno dei massimi pensatori circa le differenza e le affinità tra i pensieri filosofici orientali e occidentali. Recentemente è stato recensito da Remo Bodei su Il Sole 24 ore. Qui però prendiamo spunto da un altro suo libro: Pensare con la Cina (ed. Mimesis). Jullien parte da un presupposto piuttosto intrigante: in Occidente siamo sempre stati abituati a ragionare riguardo il politico, tenendo presente anche una situazione «ideale». Ecco, dice Jullien, in Cina non c’è – né mai c’è stata – la metafisica. I cinesi non si chiedono, filosoficamente, «cosa è questo». Si chiedono «come posso farlo»? I giornalisti la chiamano praticità. Anche la tirannide, quindi, va lasciata correre, verso il suo inesauribile cammino anche di autodistruzione, nel momento in cui non assolva al suo compito.
E aggiunge Jullien, pensiamo alla parola rivoluzione, in cinese: geming. Letteralmente significa «rimuovere un mandato», non sovvertire. Appare complicato, ma si tratta semplicemente di un approccio. Del resto, specifica Jullien, le speculazioni occidentali sulle forme politiche nascono in difesa di uno status quo. E la Cina ha sempre sinizzato, non si è mai dovuta difendere, se non in tempi contemporanei, da occidentali e giapponesi, da forze esterne.
Un substrato culturale differente, su cui si innerva il confucianesimo, che pone dunque il modello cinese su traiettorie politiche «in movimento», in sperimentazione, rispetto ad un Occidente statico e ancora poco critico dell’attuale suo funzionamento democratico. Si badi bene: al contrario di alcuni osservatori – come recentemente è capitato a Loretta Napoleoni – non si sostiene che il modello cinese possa essere applicato a quello occidentale: si tratta però di riscontrarne alcune caratteristiche e funzionamenti che fanno si che in Cina, la meritocrazia sia stata perfezionata, abbia visto dei cambiamenti.
E arriviamo al punto politico attuale: il recente congresso del Partito è stato letto da osservatori internazionali come la vittoria dei conservatori. Ed è bizzarro che lo stesso congresso venga letto da intellettuali che si occupano di Cina, non dictator huggers, ma studiosi, come – invece – un passo avanti importante della «meritocrazia» cinese.
Che ha dei punti deboli e altri ancora da sviluppare e migliorare. Le sacche di privilegi e di corruzione sono ancora tante e solo un sistema giudiziario più trasparente e un’apertura a maggior libertà di dibattito anche sui media sembrano poter rimediare. Nel corso degli ultimi tre decenni, scrivono Daniel Bell ed Eric Li sul Financial Times, il Partito comunista è passato da un partito rivoluzionario a un partito «meritocratico». «Oggi, scrivono i due professori, le università sono i luoghi principali di reclutamento per i nuovi membri. Gli studenti hanno bisogno di punteggi straordinari per superare gli esami nazionali ed essere ammessi ad una università di elite che forma i futuri leader. Competono ferocemente per essere ammessi nel partito. Solo con alte prestazioni gli studenti sono ammessi e dopo aver superato approfonditi controlli».
Chi vuole «servire il popolo», deve passare esami di stato con milioni di richiedenti per un posto solo e una volta che sono «dentro» devono superare numerose valutazioni dei superiori per fare carriera. «Devono funzionare bene a livello delle amministrazioni locali e superare anche test caratteriali».
Di sicuro il sistema di scelta dei funzionari in Cina, però, funziona. Il Paese tiene, progredisce e studia il sistema per rinnovarsi. «I vantaggi della meritocrazia cinese sono chiari – specificano Daniel Bell ed Eric Li. I quadri sono sottoposti a un processo di selezione estenuante e solo quelli con un record di ottime prestazioni arrivano ai più alti livelli. Invece di sprecare tempo e denaro per campagne elettorale vuote di senso, i leader possono cercare di migliorare le loro conoscenze e le prestazioni. La Cina manda spesso i suoi leader ad imparare dalle migliori pratiche politiche all’estero».
Questo – è innegabile – è qualcosa che in Occidente non appare all’orizzonte. E che vale la pena domandare e indagare: la Cina è una potenza economica, con le sue peculiarità ma come dice Zhang Weiwei, professore della prestigiosa Fudan University, sulle pagine del New York Times, «non produrrà mai leader incapaci alla stregua di Bush o Noda in Giappone». Una bella rivincita per i dittatori. E un valido motivo per una discussione seria, anche in Italia, circa la meritocrazia cinese e i modelli politici per questo mondo globalizzato.