La promessa elettorale di far rientrare grosse quantità di denaro in India – si stimava di 1,7 trilioni di rupie, pari a 25 miliardi di dollari, di fondi depositati illegalmente all’estero – ha trovato una prima realizzazione sabato 1 ottobre, quando il ministro delle finanze Arun Jaitley ha annunciato l’esito della campagna di quattro mesi dell’«Income Declaration Scheme». Stando alle cifre ufficiali, dal primo giugno la finestra del condono ha raccolto oltre 64mila dichiarazioni di redditi precedentemente evasi, per un totale di 652,5 miliardi di rupie (pari a 9,8 miliardi di dollari) rientrati nel paese.New Delhi, e presumibilmente il resto dell’India, negli ultimi quattro mesi è stata invasa da grandi cartelloni sponsorizzati dal governo federale che incitavano la popolazione a trasformare i propri «black money» in «white money».
Il tema dei «black money», i fondi neri dei contribuenti indiani illegalmente depositati presso conti esteri, è stato e sarà uno dei cavalli di battaglia del Bharatiya Janata Party (Bjp), declinato ad arma contudente per infierire su un Indian National Congress (Inc) moribondo e accusato, da anni, di controllare cifre astronomiche di fondi della famiglia Gandhi al sicuro nelle banche svizzere, negati al fisco indiano.
La normativa prevede che sui fondi neri dichiarati in questo lasso di tempo il contribuente dovrà pagare, in due rate, una multa pari al 45 per cento della somma da far rientrare. Significa che il fisco indiano, su questi fondi, farà entrare nelle casse dello stato ben 294 miliardi di rupie, pari a 4,4 miliardi di dollari. Fondi che, ha spiegato il ministro Jaitley, saranno usati per lo sviluppo dell’India rurale e per il potenziamento delle infrastrutture.
Al di là delle rivelazioni di qualche mese fa dei Panama Papers (con decine di nomi di ricchi indiani presenti nelle liste emerse sulla stampa internazionale), l’evasione fiscale in India è un problema annoso e decisamente ampio.
Secondo gli ultimi dati ufficiali riportati dal Financial Times, oggi in India solo il 4 per cento della popolazione dichiara i propri redditi al fisco.
Dalla base fiscale indiana sono esentati tutti coloro che guadagnano meno di 250mila rupie all’anno (pari a 3700 dollari), cioè la stragrande maggioranza degli indiani, più tutti i contadini (anche chi supera la soglia delle 250mila rupie l’anno). Nonostante ciò, riporta sempre Ft, l’amministrazione Modi si era impegnata ad allargare la base dei contribuenti, con l’obiettivo di raggiungere almeno una quota di contribuenti del 23 per cento della popolazione totale, soglia giudicata «auspicabile» dall’esecutivo. Al 4 per cento, siamo ancora molto lontani.
L’evasione fiscale è conseguenza diretta del macro-problema del «lavoro informale», ovvero tutte le transazioni «sotterranee» che quotidianamente alimentano un’economia parallela che prospera lontano dalle cartelle esattoriali. Si stima che il 90 per cento della forza lavoro indiana sia «informale» (senza diritti, orari di lavoro, stipendi fissi, malattia, contributi) e che gran parte delle attività economiche su suolo indiano – dall’acquisto della merce, anche all’ingrosso, fino alle transazioni immobiliari – avvenga in contanti non dichiarati, e quindi non tassati.
Meno soldi nelle casse dello stato significa meno spesa pubblica, meno potenziamento infrastrutturale, meno investimenti in settori pubblici strategici, meno welfare, meno servizi.
Palle al piede di un paese che muore dalla voglia di diventare superpotenza.
[Scritto per Eastonline]