Prosegue la campagna anticorruzione di Xi Jinping. Notizia del giorno è il licenziamento di oltre 300 funzionari della città di Maoming, importante città portuale del Guangdong. Un caso già noto prima del XVIII congresso del Pcc oggi ritorna. E getta un’ombra sulla carriera del vice premier Wang Yang. “Colpire le grandi tigri e le piccole mosche”, dice il presidente Xi Jinping, e nella retata di Maoming, la località del Guangdong già soprannominata “città delle mazzette”, sono finiti per ora in trecento.
La vicenda è esemplare del grado di corruzione dei funzionari cinesi, del nesso inestricabile tra ragion politica e azione giudiziaria e del fatto che, quando lo si scoperchia, il vaso di Pandora non finisce più.
La notizia del giorno è che una nuova ondata di ispettori dell’agenzia anticorruzione cinese – settanta per la precisione – sono piombati nella città portuale da cinque milioni di abitanti che si trova nell’estremo sudest cinese. È di fatto la riapertura di una vicenda in corso da mesi, se non anni, cioè almeno da quando, nel febbraio del 2011, il locale segretario del Partito, Luo Yinguo, fu incriminato per corruzione.
Luo fu trovato in possesso di una grande quantità di beni provenienti da fonti non identificate e venne accusato di utilizzare la propria carica per estorcere tangenti. In casa sua furono rinvenuti 10 milioni di yuan in contanti (oltre un milione e duecentocinquantamila euro) e i media cinesi ipotizzarono che fossero frutto di tangenti ricevute in occasione dei preparativi per il capodanno cinese del 2011.
Una vicenda come mille altre, si dirà, ma oltre a colpire per i grandi numeri, questa si interseca con i destini di un astro nascente – o forse già calante – del firmamento politico cinese: il segretario del Partito nel Guangdong, Wang Yang. Nell’autunno scorso, Wang, fu spesso indicato da molti analisti come uno dei papabili membri del comitato permanente del Politburo (cioè, uno dei sette che di fatto governano la Cina). Rimasto fuori dalla stanza dei bottoni vera e propria, occupa attualmente la carica comunque importante di vicepremier.
È definito spesso “liberale” sia nell’accezione economica (cioè “liberista”) sia in quella politica di stampo anglosassone (cioè “progressista” o “socialdemocratico”) e, soprattutto, è stato più volte identificato alter ego di Bo Xilai, il leader di Chongqing caduto in disgrazia giusto un anno fa: di qui il ricco Guangdong aperto alle riforme di mercato, di là l’emergente megalopoli Chongqing, con i suoi canti rossi e un occhio a un’eguaglianza tacciata talvolta di populismo e piuttosto fuori moda nella Cina di oggi. Due anni fa, i due modelli sembravano contendersi il futuro della Cina.
Poi, Bo fu fatto fuori e Wang ottenne invece il plauso di tutti per come seppe gestire senza spargimenti di sangue e in forma democratica la vicenda di Wukan, il villaggio che un anno e mezzo fa si ribellò contro i locali funzionari per una questione di terreni requisiti e speculazione immobiliare. Sotto il patrocinio del segretario regionale, a Wukan si svolsero addirittura libere elezioni, che misero al potere nuovi leader locali. Tutto il mondo applaudì. Sembrò l’approvazione di un’intera linea politica, specie se si buttava invece un occhio alla tragica fine del disgraziato Bo.
Oggi, una fonte anonima racconta al South China Morning Post che Wang Yang avrebbe fatto pressioni per insabbiare l’inchiesta di Maoming prima dello “Shibada”, il grande congresso del Partito comunista che lo scorso novembre ha nominato la nuova leadership nazionale. Il segretario del Guangdong avrebbe promesso uno speciale indulto una tantum, affermando che nessuna ulteriore indagine sarebbe stata condotta se tutti i funzionari coinvolti avessero restituito i guadagni illeciti.
La logica appare evidente: silenziare un imbarazzante scandalo proprio quando è in corso la grande partita del potere supremo.
Poi Wang è stato parzialmente ridimensionato dall’esito del congresso e oggi a Maoming ritornano in massa gli ispettori, fatto che si può leggere secondo due chiavi diametralmente opposte: si prepara un attacco all'(ex) golden boy del riformismo liberal; oppure, si ritira fuori lo scandalo quando lui è ormai al riparo e ben piazzato politicamente. Si vedrà in futuro.
Intanto, il giro di vite di Maoming ha già portato al licenziamento di 303 funzionari – di cui 24 a livello di prefettura e 218 a livello di contea – sessanta dei quali sono inquisiti. Luo Yinguo deve ancora affrontare un processo.
Ci si chiede quante “grandi tigri” siano effettivamente finite nel sacco e se non si tratti invece di una semplice strage di “piccole mosche”, questione piuttosto importante per il cinese qualunque, che comincia a temere che la grande campagna anticorruzione funzioni solo fino a quando non si pestano piedi troppo importanti.
“Agli occhi della gente comune, tutti i funzionari rovesciati nello scandalo di Maoming sono ‘piccole mosche’ di basso rango e non ‘grande tigri’ influenti e dotate di pedigree”, dice Johnny Lau Yui- siu, un esperto di cose cinesi, al South China Morning Post.
Tra quelli caduti in disgrazia, Luo a parte, il più importante è Zhou Zhenhong, definito “di livello ministeriale”. Era a capo del dipartimento del Lavoro locale, nonché predecessore di Luo come segretario cittadino del Partito. Un altro nome noto è Liu Tienan, già vicedirettore della commissione per lo Sviluppo nazionale e le Riforme, licenziato martedì scorso.
[Scritto per Lettera43; foto credits: theepochtimes.com]