Elezioni in Malaysia – Non più soltanto una formalità

In by Gabriele Battaglia

La Malaysia si presenta alle elezioni più divisa che mai. Le tensioni etnico-religiose agitano un paese, in cui il costo della vita continua a salire e cresce l’insofferenza verso la corruzione dilagante. E aumentano gli appelli per elezioni e un’informazione libere. Toccherà ai due maggiori partiti dare risposte adeguate.  I primi segni di cedimento li aveva manifestati subito dopo il mezzo secolo di vita, quando aveva perso la ferrea presa con cui da sempre teneva le redini del potere. Ora, a 56 anni esatti, il Barisan nasional, la coalizione di partiti che governa la Malaysia dalla conquista dell’indipendenza, ha il volto segnato dalle rughe, la voce esitante e il passo malfermo di un ultraottantenne.

E mentre cerca di contrastare la debolezza senile che ha iniziato ad affliggerlo, il Fronte nazionale si trova a dover affrontare la più ardua sfida di tutta la sua carriera politica: vincere la contesa elettorale contro il Pakatan rakyat, l’unione di partiti che nel 2008 gli ha strappato di mano la sua arma principale, quella storica maggioranza dei due terzi del parlamento che gli aveva consentito di controllare indisturbato il Paese dal 1957.

A chiamare i 13 milioni di elettori malesi alle urne, che si apriranno domenica 5 maggio, è stato all’inizio di aprile il primo ministro Najib Tun Razak. Per la prima volta nella storia dell’arcipelago il capo dell’esecutivo è stato costretto a sciogliere le camere prima della scadenza naturale del loro mandato quinquennale. Un segno di chiara fiacchezza da parte del Barisan nasional, che nel passato è sempre stato abituato a considerare come pure formalità i momenti di confronto con i suoi avversari politici ma che da tempo ha iniziato a scricchiolare sotto il peso delle tensioni religiose ed etniche che agitano con forza crescente la federazione malese, della corruzione radicata in ogni livello dell’amministrazione statale, del costo della vita in continuo aumento e delle defiance di un apparato di giustizia totalmente inefficiente.

Najib, divenuto primo ministro dopo le dimissioni del suo predecessore, Abdullah Ahmad Badawi, non ha mai affrontato elezioni generali. Sono in molti, anche all’interno del suo partito, il Pertubuhan kebangsaan melayu bersatu, o United malays national organisation (Umno), a giudicarlo in seria difficoltà davanti a quella che tutti gli analisti politici concordano nel ritenere la più complessa prova politica mai affrontata dalla coalizione di governo. Il suo diretto avversario, il Pakatan rakyat, o People’s alliance, ha visto crescere la propria forza in maniera costante nell’ultimo lustro, e dopo aver ottenuto la maggioranza in cinque dei tredici Stati della federazione nelle elezioni del 2008 e il 47 per cento dei seggi nel parlamento federale, punta adesso a una vittoria che, sebbene niente affatto certa, non può essere del tutto esclusa.

La tenzone politica ruota attorno ad alcuni temi che ormai da anni sono al centro del dibattito pubblico: gli equilibri etnico-religiosi del Paese; la lotta alla corruzione; la necessità di garantire elezioni libere e democratiche; l’applicazione della cosiddetta hudud law, che i malesi identificano in sostanza con la legge islamica (hudud è un termine utilizzato nella letteratura dell’Islam per indicare il sistema di punizioni per i casi di violazione della legge stabilita da Dio).

La componente etnico-religiosa

In un Paese in cui l’Islam è riconosciuto come religione di Stato, professata dal 53 per cento dei 28 milioni di abitanti, con una popolazione a maggioranza malese ma comprendente cinesi, indiani e molti altri gruppi minoritari di fede buddista, induista o cristiana, non sorprende che i partiti e le coalizioni politiche abbiano un forte radicamento territoriale ed etnico. Durante la campagna elettorale entrambi gli schieramenti hanno giocato la carta dell’ “appartenenza” per tentare di guadagnare consensi: il Barisan nasional puntando sulla difesa della supremazia malese e il Pakatan rakyat mirando a scardinare un sistema di leggi e norme ritenuto profondamente iniquo nei confronti delle minoranze.

Uno degli slogan più utilizzati da Najib è stato “Non scherzare con il futuro dei tuoi figli e dei tuoi nipoti”, a sottolineare la necessità per tutti i malesi di ritrovare quella compattezza perduta che è sempre riuscita a garantire il loro primato sugli altri gruppi. Un appello fatto proprio anche da molte ong e associazioni, scese più volte in piazza per dimostrare contro una serie di provvedimenti legislativi adottati a livello locale che hanno eroso e limitato i privilegi dell’etnia di maggioranza. Come accaduto nello Stato del Penang, dove la New economic policy, che per 42 anni aveva assicurato di fatto ai malesi il controllo dell’economia, è stata abolita dopo la sconfitta riportata nel 2008 dal Barisan nasional.

Parallelamente il primo ministro ha ripetuto più e più volte che votare per l’opposizione significherebbe bloccare quel processo di riforma dell’economia avviato dal governo nel 2010 con l’Etp, l’Economic trasformation program, un programma da 300 miliardi di euro che dovrebbe trasformare il Paese in una moderna potenza mondiale entro il 2020.

Nelle scorse settimane il numero uno dell’Umno si è spinto a promettere agli elettori un aumento delle esenzioni fiscali, aiuti diretti in denaro ai giovani, una riduzione del costo delle auto e dei servizi internet e l’ampliamento della Trans Borneo highway, l’autostrada che unisce gli Stati orientali del Sabah e del Sarawak con il Brunei.

Un programma che gli avversari hanno subito bollato come economicamente insostenibile, accusando Najib di compravendita di voti e sottoinenado che fino ad oggi gli unici ad aver ottenuto vantaggi significativi dalle politiche portate avanti dall’esecutivo sono stati i funzionari statali, quasi tutti malesi, che hanno visto il proprio reddito aumentare dai 4.025 ringgit mensili (circa 1.012 euro) del 2009 agli attuali 5.000 (circa 1.257 euro).

A fronte di ciò, sottolinea l’opposizione, il costo della vita per singoli e famiglie continua crescere senza sosta, con spese per educazione e cure mediche alle stelle e prezzi dei generi alimentari che lievitano preoccupantemente mese dopo mese.

Anche l’idea di abbassare il canone per l’accesso a internet è stata attaccata dal Pakatan rakyat, che sa bene come il controllo dell’informazione sia nelle mani del fronte avversario e che, in una competizione elettorale in cui ben 3 milioni di giovani si recheranno alle urne per la prima volta, la possibilità di influenzare l’opinione pubblica attraverso i mass e i social media può risultare determinante per il successo.

Lotta alla corruzione, elezioni libere e legge islamica

Dal canto suo il Pakatan rakyat ha avuto gioco facile nel puntare il dito contro i sempre più numerosi casi di corruzione e clientelismo che costellano la storia del Barisan nasional, promettendo un approccio più trasparente alla gestione del governo e dell’amministrazione pubblica e politiche di sviluppo pensate non su base etnica ma studiate per rispondere alle reali esigenze del Paese.

Promesse che sembrano aver sortito il loro effetto: secondo un sondaggio del centro di ricerca Merdeka Center riportato dall’Asia Times, attualmente solo il 34 per cento della popolazione cinese della Malaysia (che rappresenta un quarto del totale) sostiene la colazione di governo.

Semplicemente contrastando la corruzione e lottando contro gli sprechi, assicura la People’s alliance, sarebbe possibile risparmiare ogni anno 46 miliardi di ringgit (circa 11,5 mliardi di euro), da investire in aiuti agli Stati più poveri della federazione, nell’istruzione e in una politica degli alloggi che possa andare incontro alle fasce maggiormente disagiate della popolazione.

Uno dei simboli della svolta che la Malaysia potrebbe conoscere se il Fronte nazionale fosse sconfitto è proprio il leader dell’opposizione Anwar Ibrahim. Dopo aver militato nelle fila del Barisan nasional e aver ricoperto l’incarico di vice primo ministro, Anwar è stato espulso nel 1998 dall’allora capo dell’esecutivo Mahathir Mohamad, il grande stratega che ha guidato la coalizione tra il 1981 e 2003. Imprigionato per sei anni per abuso di potere, è stato in seguito accusato due volte di sodomia, risultando però sempre innocente in fase di giudizio.

Risalita la china fino a diventare capo del Pakatan rakyat, Anwar ha lanciato la sua sfida a Najib, riscuotendo un notevole successo soprattutto negli Stati del Penang e del Selangor, tra i più sviluppati dal punto di vista economico e considerati obiettivi principali dal suo diretto avversario, che vorrebbe conquistarli “ad ogni costo”, come ha rivelato ai media malesi.

A sostenere l’opposizione non sono solo le minoranze cinese, indiana e gli altri piccoli gruppi minoritari ma anche il Gabungan pilihanraya bersih dan adil, o più semplicemente Berish, una parola che in malese significa “pulito” e che indica un gruppo di ong formatosi nel 2006 per chiedere una riforma del sistema elettorale in senso maggiormente democratico.

Il Berish ha accusato apertamente la coalizione di governo di frodi, sottolineando che la commissione elettorale incaricata di vigilare sul corretto svolgimento delle elezioni è in realtà un organo fantoccio nelle mani dell’esecutivo. Nel corso degli ultimi due anni le numerose manifestazioni organizzate dal gruppo hanno visto la partecipazione di decine di migliaia di persone, grazie alla mobilitazione delle quali sono state ottenute alcune modifiche delle norme che disciplinano lo svolgimento delle votazioni, modifiche ritenute però del tutto marginali e insufficienti. Tanto che nei primi tre giorni dell’ultima campagna elettorale si sono verificati oltre 380 incidenti collegati al voto, con 15 persone finite in manette a causa di scontri violenti con le forze dell’ordine.

Ulteriore alleato del Pakatan rakyat è il Parti islam se-malaysia, o Pan-islamic malaysian party (Pas), fondato nel lontano 1939 con l’obiettivo di diffondere l’hudud law, la legge islamica, in tutto l’arcipelago malese. Il Pas è stato il primo partito di opposizione a sconfiggere il Barisan nasional in uno Stato a maggioranza malai e attualmente gode di un buon supporto, in particolare nelle regioni rurali del nord, il Kelantan e il Terengganu.

Consapevole di ciò, la dirigenza della formazione pan-islamica ha assunto un atteggiamento di intransigenza in merito all’applicazione del suo programma, che a suo dire riguarderebbe solo i musulmani ma che spaventa non poco gli appartenenti alle altre religioni per le possibili conseguenze che l’applicazione dell’hudud potrebbe avere sulle loro vite.

Da questo punto di vista l’opposizione si trova davanti a un bivio: andare contro il Pas significherebbe perdere molti voti dei credenti nell’Islam, mentre accettare le sue richieste potrebbe voler dire rinunciare al consenso di altri gruppi, tra cui gli indecisi e i nuovi elettori.

* Paolo Tosatti è laureato in Scienze politiche all’università “La Sapienza” di Roma, dove ha anche conseguito un master in Diritto internazionale, ha studiato giornalismo alla Fondazione internazionale Lelio Basso. Lavora come giornalista nel quotidiano Terra.