Luci e ombre del modello Cina

In by Simone

Il processo era già stato innescato da 32 anni di riforme economiche, ma la crisi finanziaria globale lo ha accelerato: oggi la Cina si sente, e viene considerata da più parti, al centro del mondo. Il Dragone, simbolo che per millenni ha identificato il Celeste Impero, oggi deve essere meglio delineato e va integrato con un nuovo e più attuale animale mitologico: non esiste una definizione precisa del cosiddetto“Modello Cina”; con estrema semplificazione la Cina di oggi viene etichettata come un gigante con il corpo dominato da una certa forma di libero mercato e una testa autoritaria.

"Questo assetto esercita un indubbio fascino a tutti i livelli su diversi ambienti, anche insospettabili; ma superate le prime curve, dopo gli ottimi risultati di crescita anche nell’annus horribilis 2009, ora la locomotiva-Cina si muove su nuovi terreni accidentati, sia interni che esterni. Su entrambi i fronti incombe una scadenza: nel 2012 l’attuale amministrazione cederà il passo ai dirigenti di nuova generazione, la Quinta, e tutelare quella che la leadership chiama “la supremazia del Partito” costituisce l’elemento fondante nella strategia cinese sia all’interno che all’esterno del paese.

Ecco allora che le alchimie politiche dentro Zhong Nan Hai assumono un’importanza mai così elevata anche per il resto del mondo". Dopo i saluti introduttivi di Federico Masini (professore di Lingua e Traduzione cinese presso l’Università La Sapienza), è con queste premesse che i moderatori Alessandra Spalletta (coordinatrice di AgiChina24) e Lorenzo Stanca (managing partner del Fondo Mandarin) introducono i temi del convegno. La leadership è coesa? Quali sono i possibili sviluppi del “Modello Cina”?

Esiste una forma di democrazia? E come sta cambiando la società civile? Il convegno organizzato da AgiChina24 in collaborazione con l’Università di Roma La Sapienza, GEI e ISPI e con il sostegno economico di Istituto Confucio di Roma e Mandarin Capital Partners, ha provato ad abbozzare le linee delle dialettiche interne, per provare poi anche a comprendere le ripercussioni che avranno all’esterno.

Un appuntamento cui hanno preso parte personalità internazionali appartenenti al mondo accademico ed economico che, moderati da hanno cercato di individuare le caratteristiche principali, i punti di forza e quelli di debolezza del "modello Cina" – sia dal punto di vista politico che economico –  che attira le critiche e le lodi della comunità internazionale.

Non importa di che colore sia il gatto, l’importante è che riesca a prendere il topo

 

 

Alla luce dei progressi economici attuati dalla Cina negli ultimi anni e della efficace risposta che Pechino ha saputo dare alla crisi finanziaria globale, sono in molti a chiedersi se bisogna imparare dalla potenza asiatica e se è opportuno adottare il “Modello Cina”. Il concetto circola ormai da qualche tempo. “Per anni – ha spiegato Suisheng Zhao, docente presso il Center for China-US cooperation, Graduate School of International Studies dell’Università di Denver e editor della rivista Journal of Contemporary China – il Modello Cina è passato inosservato fino a quando, in occasione del 60esimo anniversario della Repubblica Popolare cinese, un ciclo di seminari che ha riunito molti studiosi che si sono confrontati sul tema ha portato a una conclusione: il sistema cinese si è dimostrato valido, mentre non si può dire lo stesso per quello occidentale”.

Il Modello ha dato il via a un processo di modernizzazione alimentato da pragmatismo, ma non da un ideologia. “In sostanza – ha continuato Zhao – i cinesi hanno messo in pratica una delle più famose massime di Deng Xiaoping: "non importa di che colore sia il gatto, l’importante è che riesca a prendere il topo”. Individuata nella stabilità politica la condizione necessaria per la modernizzazione e per la realizzazione di uno stato pro-sviluppo, i leader cinesi hanno trovato una terza via ‘rubando’ dall’Occidente le teorie ritenute più utili e amalgamandole con quelle cinesi. “Il partito è riuscito a salvaguardare la sua sfera di controllo e ha dato vita a quello che viene definito un mix tra stato sociale con una nozione di libertà economica e una forte presenza del partito.

E proprio in questo risiede la sua unicità” ha spiegato Zhao, che ha aggiunto: “L’economia cinese non può essere definita libera, ma gli aspetti illiberali non hanno ostacolato la crescita economica”. E questo aspetto, unito al fatto che Pechino ha trovato una soluzione per garantire la stabilità, suscita l’interesse di tutti i Paesi in via di sviluppo. Si tratta però, spiega ancora Zhao, di un modello che presenta anche dei limiti nonostante i suoi punti di forza, quali il fatto di aver permesso alla Cina di mantenere una crescita costante nonostante la crisi (grazie soprattutto al pacchetto stimoli varato dal governo), una considerevole riduzione della povertà, e un maggior impegno del governo sul fronte estero. “Esiste un Modello Cina che presenta delle caratteristiche specifiche, ma ha ancora molti limiti e soprattutto bisogna che acquisti maggior valore” sostiene Zhao, secondo il quale il Modello manca di forza morale: spesso si vede Pechino collaborare anche con leader di regimi dittatoriali, cosa che non è vista di buon occhio all’estero.

A ciò bisogna aggiungere il fatto che l’unico partito al governo ha dimostrato di avere una vera e propria fame di potere e denaro, e che il Modello ha creato profonde disuguaglianze, rendendo più acuti alcuni problemi sociali.

 

Società civile con “caratteristiche cinesi”

 

E sono proprio questi problemi ad animare le crescenti ondate di proteste del popolo cinese nei confronti di un governo che non riesce più a esercitare il totale controllo.

“Le riforme politiche sono state avviate negli anni ’80 – ha spiegato Jean-Philippe Béja, direttore di ricerca e Senior Researcher al Centre National de la Recherche Scientifique-Centre d’Etude et de Recherches Internationales di Parigi – in seguito, dopo i fatti di Tian’anmen e in particolare dopo il tentativo di negoziazione con gli studenti dell’allora segretario del PCC Zhao Ziyang (letto come un tradimento nei confronti dei membri del partito) il PCC ha fatto un passo indietro attuando una serie di misure e provvedimenti volti a impedire che forze contrapposte mettano in pericolo l’unità del partito”.

Oggi quella “stabilità a tutti i costi” inseguita dal PCC è messa alla prova da diverse sacche di malcontento, dalle proteste di cinesi che cercano di lottare per i propri diritti e per la propria salute, spesso messa a repentaglio da orari di lavoro massacranti o dall’inquinamento atmosferico. Di frequente, inoltre, gli episodi di sfruttamento arrivano direttamente dai funzionari locali che – poiché giudicabili e licenziabili per non aver sedato le forze sovversive – ricorrono a ogni mezzo per garantire l’ordine. Altre volte, spiega Béja, ai cinesi vengono espropriate case e terre in cambio di pochi spiccioli.

E ciò suscita malcontento che sfocia in rivolte. “Di recente – continua Béja – si è registrata una maggiore attenzione nei confronti dei diritti dei cittadini”. Spesso però questi ultimi si trovano con le mani legate perché “secondo la legislazione cinese, i cittadini possono appellarsi alla Costituzione, ma è anche vero che il sistema giudiziario deve obbedire al partito. E’ il PCC ad avere l’ultima parola”. In aggiunta i movimenti autonomi sono proibiti dal consenso dell’89 (progresso economico in cambio di stabilità politica). Cosa succede a quel punto? “Si fa alla cinese!” spiega Béja, che aggiunge: “Esistono movimenti formati da avvocati, giornalisti e dissidenti che si battono per queste cause.

Altri invece si affidano a quello che Liu Xiaobo ha definito ‘il regalo di Dio alla Cina’: internet".

 

All’indomani delle Olimpiadi di Pechino è emerso chiaramente il bisogno di un dibattito sulla natura della stabilità politica. E’ stata creata un’amministrazione apposita, incaricata di proteggere la stabilità attraverso la repressione delle agitazioni”. Nonostante queste misure Pechino non sembra aver scoraggiato i cittadini a lottare per i propri diritti, anche creando confusione. E forse i cittadini non sono da soli. Un mese fa, nel corso di un’intervista alla CNN, Wen aveva affermato che “il desiderio di democrazia per una popolazione è irrefrenabile”. E queste potrebbero non essere solo le idee del premier, ma anche di altri elementi all’interno del PCC. “Siamo giunti alla fine del consenso dell’89, e forse ci sono forze all’interno del partito che stanno lottando per queste riforme. Non siamo ancora nel clima degli anni ‘80, ma almeno si sta rimettendo in discussione il patto siglato nell’89”.

 

Il “Modello Deng Xiaoping”

 

 

E se è vero che la Cina sta imboccando il sentiero delle riforme politiche, si può essere certi del fatto che ciò non avverrà alla ‘maniera occidentale’ garantisce Marina Miranda, docente di storia contemporanea presso la facoltà di Studi Orientali dell’Università di Roma La Sapienza. “I leader cinesi sostengono che la Cina deve trovare una propria via” continua la professoressa.

Alle dichiarazioni di Wen hanno fatto seguito una serie di editoriali di risposta apparsi sui principali media di stato. Il Guanming Ribao, in un editoriale pubblicato il 4 settembre, ricorda che non bisogna confondere le due tipologie di democrazia. “Questo bisogno di ribadire la posizione ortodossa ci fa pensare che ci sia un interlocutore e che le dichiarazioni di Wen non siano solo del premier ma che siano condivise anche da altri” afferma Miranda.

E ancora, il 27 ottobre il Renmin Ribao (Quotidiano del popolo) invitando a maneggiare le riforme economiche con cautela, sottolinea come il sistema su cui si basa la Cina contemporanea sia ancora quello ideato da Deng Xiaoping. Sulla validità di questo modello e sull’ipotesi di una possibile rivalutazione, Pechino non sembra ancora pronto a discutere. “Deng non può essere messo in discussione, così come anche i fatti di Tian’anmen – spiega Miranda. Farlo significherebbe rimettere tutto in discussione”. A mettere in discussione i meriti di Deng è arrivato un libro, spiega ancora Miranda, che getta delle ombre sul ruolo svolto da Deng nel varare le riforme economiche. L’opera, pubblicata negli Stati Uniti, è il diario di Zhao Ziyang, e secondo quanto riportato nel testo sarebbe stato proprio quest’ultimo a ideare le riforme. Per quanto il PCC voglia proteggere la stabilità e l’immagine tradizionale, sembra dunque che qualcosa si stia muovendo. E il fatto che la richiesta di riforme politiche e di democrazia sia giunta di recente da veterani dal PCC è un segnale che potrebbe essere giunto il momento di cambiare strada.

 

I leader della 5° generazione

 

 

Se questo cambiamento sarà attuato, o meno, dai leader di quinta generazione è ancora difficile da pronosticare. Ma chi sono i prossimi governanti? “Sono politici nati negli anni ’50 che hanno sperimentato la Rivoluzione Culturale – ha spiegato Bo Zhiyue, Senior research fellow presso il National East Asian Institute dell’Università di Singapore. Sono ben istruiti, la maggior parte di loro sono in possesso di Ph.D., e hanno tutti ricoperto incarichi prestigiosi.

La loro debolezza è la mancanza di esperienza all’estero. Solo pochi hanno studiato fuori dalla Cina”. Per quanto riguarda l’orientamento politico, Bo sostiene che si tratterà perlopiù di un governo tecnocratico in cui i leader si ritroveranno ad applicare politiche economiche e internazionali già ideate dai loro predecessori

 

“Modello Cina” anche in politica estera?

 

 

Ma i relatori del convegno non hanno tracciato solo un quadro politico; si sono spinti anche in un’analisi dell’attuale economia cinese e della politica estera. Esiste un “Modello Cina” anche in politica estera? L’interrogativo è stato posto da David Shambaugh, Docente di Scienza Politica e Affari Internazionali e direttore del China Policy Program della Elliott School di International Affairs presso la George Washington University.

“Esiste un modello cinese nel settore politico e in quello culturale. Si tratta di modelli specifici, credo non replicabili in altri Paesi, e ibridi ovvero caratterizzati da elementi presi dall’estero e instillati in elementi indigeni”. Nonostante la Cina abbia stretto circa una quarantina di partnership strategiche il nuovo concetto o slogan di “Mondo Armonioso” sembra quasi essere una mera esternalizzazione della propaganda interna e mal si adatta al di fuori dei confini domestici”. “Nonostante le recenti aperture – ha continuato Shambaugh – quest’anno la politica estera cinese è entrata spesso in conflitto con gli Usa e con alcuni Paesi del Medio Oriente”.

Poi un consiglio: “A mio avviso bisogna guardare a quello che la Cina realmente fa in politica estera e non agli slogan che per gap culturali o comunicativi non sembrano produrre effetti al di fuori della Cina”.

 

L’attacco al Renminbi

 

 

E dopo le relazioni internazionali, il tema più caldo del momento: l’apprezzamento dello yuan. “Per aumentare i consumi interni, obiettivo del prossimo piano quinquennale, – ha spiegato Barry Naughton, presidente del Chinese International Affairs Center della Graduate School of International Relations and Pacific Studies dell’Università della California – è fondamentale che la Cina si concentri sull’aumento del tasso di cambio e dei salari.

Pechino continua a temere molto questa opzione, ma in realtà dovrebbe farlo non perché lo vogliono gli USA, ma per la crescita del Paese”.

 

A seguire una riflessione suggerita da Giorgio Prodi, ricercatore di Economia applicata presso la facoltà di Economia dell’Università di Ferrara e membro del Comitato scientifico Osservatorio Asia. “Mentre nei Paesi industrializzati non si fa più politica industriale, in Cina la si fa molto attivamente. Le politiche industriali in Cina sono state molto articolate e sono state veicolate soprattutto dalle imprese controllate dallo Stato. Lavorando attivamente tramite le aziende di Stato, è stato molto semplice spingere sull’aumento degli investimenti”. E se da una parte è possibile imporre alle imprese di investire, dall’altra non si può imporre ai cittadini di consumare. La nuova sfida della Cina è pertanto molto più complessa e delicata.

 

Così come succede per la politica, nemmeno sul fronte economico è possibile parlare di Modello Cina.

Il grande mercato e il tempo perduto, fanno della Cina un sistema particolare con caratteristiche irripetibili. Secondo Naughton, è molto probabile che entro 30 anni la Cina sia la potenza mondiale dominante nonché il Paese più ricco. Ma non basta seguire il suo esempio per ottenere una simile crescita. Quello cinese non è un vero modello, ma una soluzione che calza a pennello a quella specifica realtà. E questo vale per qualsiasi sfera, da quella politica, a quella economica, passando per quella sociale. Il rischio che si corre parlando di Cina è quello di generalizzare una realtà così complessa. “Spesso è la stampa stessa, sia quella occidentale che quella cinese a dare un’immagine appiattita di questo Paese, mentre la realtà è multiforme” spiega Marina Miranda. E il rischio è quello di non guardare ad essa con occhio critico finendo per rigettare, o accettare, in toto ciò che ci viene presentato. Lo stesso accade con il Modello Cina che, anziché essere considerato come uno strumento di cui si serve Pechino per gestire i propri affari interni in questo preciso periodo storico, viene visto come un modello, appunto, che se adottato assicurerà prosperità economica.

E se si volesse trarre una conclusione dal dibattito di mercoledì si potrebbe affermare che la Cina ha da tempo imboccato il processo di modernizzazione, i cambiamenti sono già avvenuti in campo economico e ora cominciano a coinvolgere anche l’ambito politico, sono tuttavia ‘vie cinesi’ che non necessariamente coincideranno con la visione che l’Occidente ha di esse.

[Pubblicato su AGICHINA24 il 4 novembre 2010]