Viene da chiedersi dove Pechino trovi tanto slancio per “combattere”. Probabilmente incide la consapevolezza che i danni non saranno a senso unico. Che l’impopolarità delle tariffe trumpiane trova concordi cittadini americani, mondo del business e mercati finanziari. Che Trump oggi c’è, domani chissà. Peraltro, la Cina ha ancora numerose frecce nella sua faretra.
“Combatteremo fino alla fine”. Pechino sfida Donald Trump e le previsioni degli analisti, impegnandosi in una guerra commerciale che minaccia costi gravosi per l’economia cinese. Se Washington “continua il gioco dei dazi, la Cina lo ignorerà. Tuttavia, se insisterà a violare in modo sostanziale gli interessi della Cina, contrattaccheremo risolutamente”, ha dichiarato venerdì il ministero delle Finanze di Pechino. Le tariffe finiscono qui? Forse. Intanto però il danno è fatto e la “guerra” continua. Con altre “armi”, ma continua.
Secondo stime dell’Organizzazione mondiale del commercio, allo stato attuale i dazi incrociati potrebbero già ridurre dell’80% gli scambi commerciali tra Cina e Stati Uniti. La potenza asiatica rischia di uscire dallo scontro notevolmente ammaccata. L’economia cinese non si è mai ripresa completamente dal Covid-19. Problemi sistemici – come la bolla immobiliare e l’indebitamento delle amministrazioni locali – continuano a frenare la crescita del Pil. Ora la trade war rende più difficile centrare l’obiettivo annuo del 5% indicato dalla leadership a marzo: le esportazioni hanno contribuito a circa il 30% della crescita nel 2024. Il valore delle merci acquistate dagli Stati Uniti è stato di 438,9 miliardi di dollari, il 13,3% delle importazioni totali. Prodotti come smartphone, computer, giocattoli e console per videogiochi hanno rappresentato la fetta più consistente: il 55,5% dell’import statunitense dalla Cina. Questo rende la Cina – proprio in virtù del suo surplus commerciale – potenzialmente più esposta a una guerra tariffaria. Settori ad alta intensità di manodopera, come abbigliamento, arredamento e calzature sono stati sottoposti da Trump ad aliquote fino al 79%, con margini di profitto ormai scesi tra il 10% e il 15%.
Stando a Goldman Sachs, gli ultimi dazi di Trump potrebbero ridurre il Pil cinese del 2,4%, con una crescita stimata per quest’anno del 4,5%. Calcolo su cui – specifica la banca d’investimento – pesano le barriere commerciali che il presidente americano ha intenzione di applicare pure a quei paesi, come Vietnam e Thailandia, finora sfruttati dai produttori cinesi e stranieri per triangolare le importazioni dalla Repubblica popolare e aggirare i vecchi dazi statunitensi.
Viene da chiedersi dove Pechino trovi tanto slancio per “combattere”. Probabilmente incide la consapevolezza che i danni non saranno a senso unico. Che l’impopolarità delle tariffe trumpiane trova concordi cittadini americani, mondo del business e mercati finanziari. Che Trump oggi c’è, domani chissà. Peraltro, la Cina ha ancora numerose frecce nella sua faretra. Alcune le affila dai tempi della prima trade war. Quali lo ha spiegato il premier cinese Li Qiang durante un recente incontro con imprenditori ed esperti cinesi, snocciolando una lista di priorità: rendere la “domanda interna una strategia a lungo termine, intensificare gli sforzi per stabilizzare l’occupazione, promuovere la crescita del reddito, guidare la domanda interna con un’offerta di alta qualità, e creare un ambiente di sviluppo e servizi strategici migliori per le imprese”.
La storica resilienza del popolo cinese offre al regime una carta in più. “Per oltre 70 anni, lo sviluppo della Cina si è basato sull’autosufficienza e sul duro lavoro, mai su favori altrui, e non teme alcuna repressione ingiusta”, ha dichiarato venerdì il presidente cinese Xi Jinping accogliendo a Pechino il primo ministro spagnolo Pedro Sànchez. C’è tanta retorica, ma non solo. Secondo il Wall Street Journal, alcune fabbriche cinesi hanno già dichiarato di essere disposte a perdere gli ordini concordati con le aziende statunitensi e a trovare nuovi acquirenti altrove. Se necessario, addirittura a sospendere la produzione, lasciando così agli importatori (o ai consumatori) statunitensi il grosso delle tariffe da pagare. Se per i produttori cinesi non sarà facile rimpiazzare i clienti americani, è vero anche il contrario.
A infondere ottimismo davanti all’incertezza del futuro hanno contribuito l’improvvisa ascesa di DeepSeek e lo sviluppo tecnologico del paese, inarrestabile anche davanti alle stringenti restrizioni imposte dall’amministrazione Biden sui chip avanzati. L’industria cinese dei semiconduttori attende di capire se uscirà indenne dalla trade war, dopo il temporaneo dietrofront di Trump sui microprocessori. Ma se non fosse così, le misure ritorsive renderanno i prodotti americani più costosi e creeranno quindi più domanda interna per le aziende cinesi. Il potenziale rincaro dei prodotti statunitensi ha già fatto lievitare le azioni delle fonderie mandarine, come Semiconductor Manufacturing International Corporation (SMIC). Il patriottismo dei cinesi è una variabile da non sottovalutare. Non tanto per via degli sporadici episodi di boicottaggio che in questi giorni hanno preso di mira merci e avventori americani. La decisione annunciata giovedì di limitare l’accesso al mercato cinematografico nazionale delle pellicole di Hollywood risponde alla crescente fiducia della Cina nei confronti delle produzioni locali. E lo stesso vale per i brand locali nei settori dell’abbigliamento, automotive e della telefonia, ormai la prima scelta per molti consumatori.
Anche la sopportazione dei cinesi ha però un limite. Xi non rischia – come Trump – il giudizio negativo dell’elettorato. Ma la legittimità del partito-stato è ancorata alla capacità di assicurare stabilità e benessere. La guerra commerciale con Washington rende il compito ancora più difficile. Gli economisti stimano che 10-20 milioni di lavoratori cinesi siano coinvolti nelle esportazioni verso gli Stati Uniti: un rallentamento degli scambi bilaterali eserciterà una pressione notevole sul mercato interno del lavoro. Con una disoccupazione giovanile al 17%, quanti hanno davvero voglia di combattere lo Zio Sam?
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su ilfattoquotidiano.it]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.