London, la Cina e la fantapolitica

In by Simone

Nel 1910 Jack London viene letteralmente scosso dalle potenzialità economiche dei cinesi, tanto da ridurre una simile proiezione sinofoba nella trama di un racconto che ha previsto quello che è accaduto in Cina nell’ultimo secolo e mezzo. Alla luce della ‘Decisione’ conclusiva del Terzo Plenum è il caso di rileggere Guerra alla Cina. L’inaudita invasione (ripubblicato da O barra O).
L’ultimo Plenum del Partito Comunista Cinese ha finalmente dato corpo a quello che era un orizzonte di previsioni, ipotesi più o meno ardite da parte degli analisti di mezzo mondo occidentale, su quale sarebbe stato il futuro della Cina post Deng. Previsioni per lo più corrispondenti a quanto accaduto, quasi la Repubblica Popolare sia diventata il campo – fisico e politico – di sperimentazione di un’era a venire.

Punti di vista, certo, che forse male si accordano con la voce di quanti, invece, vedono nelle raggiunte posizioni del Terzo Plenum del Pcc un feroce passo indetro rispetto a una rivoluzione ormai tramontata, e un fulmineo guizzo in avanti rispetto a ordinamenti economici di evidente matrice occidentale.

«Allo stadio primario del socialismo», così si definisce la Cina nel documento conclusivo del suddetto Plenum, e l’espressione di per sé ha un sapore quasi beffardo. Uno stadio tanto primario da ammettere la formula – già divenuta proverbiale, come spesso accade per i motti estremo orientali – «Più mercato, meno stato», fortino di sublime retorica all’interno del quale si sono trincerati in attesa dell’assedio, il leader Xi Jinping e il Comitato Centrale del Partito Comunista.

Maggiore accesso al credito, maggiore urbanizzazione, ma soprattutto ordire quanto possibile affinché la Cina favorisca l’emersione netta e precisa di quella classe media – consumatrice di prodotti e di servizi – che è il vero organismo sociale nuovo dopo due secoli di stravolgimenti interni. Ma se la convivenza armonica degli opposti è il sale di una visione cinese del mondo, allo slogan di cui sopra manca in verità il terzo soggetto, la vera eminenza rosso-grigia che ha pilotato il raggiungimento di un cambiamento che definire epocale è riduttivo.

«Più mercato, meno stato, più Xi Jinping». Non vi è alcun dubbio che siano quest’ultimo e i sostenitori della sua linea i vincitori di un simile punto di svolta, così come è risultata cristallina la sua volontà di condurre alle estreme conseguenze la “visione” del fu Deng Xiaoping, quando agli inizi degli anni Ottanta spiegò ai proletari cinesi che arricchirsi non era per nulla disonorevole, anzi.

A chi lo elogiava per aver mutato le sorti della nazione, Mao Zedong rispondeva sempre «Al limite sono riuscito a cambiare qualcosa nel mio quartiere», a dimostrazione che anche il Grande Timoniere avesse ben presente la funzione d’appendice che in Cina il comunismo aveva – e a lungo avrebbe avuto – rispetto a uno sviluppo storico fino ad allora lento come pochi altri al mondo.

Eppure proprio la riemersione del “rosso”, la restaurazione di una retorica di partito – e di pratiche che sembravano ormai in disuso come l’autocritica, tornata in voga di prepotenza – è uno dei leit-motiv della nuova stagione cinese. Sepolto – rimosso – il fantasma di una dissidenza generazionale al feroce corso degli eventi (piazza Tiananmen è un rogo che brucia ancora nella memoria di milioni di cinesi), la Cina ha di fatto realizzato l’ibrido che fino a questo punto aveva rappresentato in potenza: una competitiva economia di mercato socialista, dove lo Stato – leggi il Partito – svolgerà sempre e comunque una non ben chiarita – ma ben remunerata – funzione di controllo, di regia.

La storia d’Occidente, da parte sua, è coincisa spesso con la storia dei suoi profeti. E di profezie sul ruolo futuro della Cina nel mondo, certo, ne sono state pronunciate a centinaia. Nei giorni successivi al Terzo Plenum una in particolare ha folgorato la memoria di molti. Quella elaborata e ordita in un “racconto crudele” da Jack London, il purtroppo dimenticato Guerra alla Cina. L’inaudita invasione (titolo originale The unparalleled Invasion) ripubblicato in Italia abbastanza di recente da O barra O Edizioni con l’ottima traduzione di Pietro Ferrari e una solida Prefazione di Diego Angelo Bertozzi.

Siamo nel 1910 e London, inviato in Corea come corrispondete della guerra russo-giapponese, viene letteralmente scosso dalle potenzialità economiche dei cinesi, tanto da ridurre una simile proiezione sinofoba nella trama di un racconto breve che, in pratica, ha previsto tutto quanto – o quasi – è accaduto in Cina nell’ultimo secolo e mezzo.

Il finale della parabola di London assume toni apocalittici, con la formazione di un fronte di attacco che vede tutte le forze occidentali proiettate verso la distruzione del nemico numero uno, ma secondo una modalità che avesse come soluzione finale lo sterminio dei cinesi attraverso il ricorso ad armi batteriologiche.

Al di là delle soluzioni narrative, inquietanti perché lucidissime nella loro capacità di prevedere, il racconto di London metteva ben a fuoco i processi di costruzione di una potenza all’apparenza invicibile conme appunto la Cina, ovvero l’attenzione certosina a rafforzare i meccanismi di produzione e consumo del mercato interno, una capacità dinamica di permanere entro i propri confini territoriali, senza interesse apparente per le sorti del resto del mondo, e allo stesso tempo l’attitudine a espandersi in maniera silenziona, infiltrando le maglie meno serrate del sistema occidentale, fino a diventare forza irrinunciabile di economie di interi paesi.

Unico grande assente dall’affresco fantapolitico di London, il Partito Comunista Cinese, attore e oggi esecutore materiale di quella tanto puntuale profezia. Come nel racconto del grande narratore statunitense, il colpo di scena – a questo punto – non verrà da Pechino, bensì dall’Europa, dagli Stati Uniti. Sono queste le potenze che hanno assistito al debutto ufficiale di una terza potenza, con il dubbio amletico di aver testimoniato senza troppa cognizione un passaggio epocale.

Sarà guerra – una guerra di mercato, di interlocuzioni politiche, di interessi più o meno emersi – alla Cina? Probabilmente sì. Il vecchio adagio, o solida leggenda popolare, che vede ciascun cinese acquistare una lavatrice e un frigorifero così da far ripartire l’economia del mondo, è senza dubbio appannato. C’è di più, e forse anche di meno. La Cina somiglia sempre di più a una potenza capitalista, ma il suo è ancora un cuore antico, e così il suo volto, che ha l’enigmatico piglio di chi riesce a vedere lontano.

Scriveva London: «E così, mentre le razze occidentali avevano litigato e combattuto, avventurandosi nel mondo una contro l’altra, la Cina aveva tranquillamente proseguito a lavorare alle sue macchie e a crescere». È andata davvero così?

*Danilo Soscia è nato a Formia nel 1979. Studioso di letteratura di viaggio, vive e lavora a Pisa. Ha esordito nella narrativa nel 2008 con Condòmino (Manni) e ha curato il volume In Cina. Il Grand Tour degli italiani verso il Centro del Mondo 1904-1999 (Ets). È stato anche redattore del quotidiano Pisanotizie.it.