La nuova fase diplomatica tra Cina e India passa anche per le relazioni personali tra i due leader, nello stile ormai consolidato di Xi Jinping. Il leader cinese è stato molto abile negli anni a costruire una sua immagine molto personale e lontana da quella post-maoista della gestione collettiva del partito.Nel libro autobiografico del fratello del Dalai Lama, Gyalo Thondup, pubblicato negli Stati uniti, il protagonista ricorda le negoziazioni con la Cina per il ritorno dell’autorità spirituale tibetana a Lhasa. Progredendo nella storia, dopo Deng Xiaoping, Hu Yaobang ed altri leader cinesi, si arriva a Xi Zhongxun, il padre dell’attuale presidente Xi Jinping. Ad un certo punto è lui – il padre del futuro numero uno – a negoziare con i tibetani. Siamo negli anni 90: il padre di quello che sarebbe diventato il leader della Cina, era stato già purgato, arrestato e poi riabilitato, come gran parte dei «padri della patria» cinesi, durante la rivoluzione culturale.
E su quella fase misteriosa della vita della famiglia Xi, l’attuale sistema mediatico cinese ha saputo costruire l’apologia del leader, ponendo grande enfasi nei ricordi di quella che per lui fu un’adolescenza sofferta. Tra Cina e Tibet si pose ben presto l’India, con un premier Nehru a giocare la sua personale battaglia per contrastare il proprio vicino. E proprio a causa del Tibet si aprirà la questione territoriale non ancora risolta dell’l’Arunachal Pradesh. Ma gli affari devono andare avanti. Xi Jinping e Modi si sono incontrati provando a fare della propria amicizia e relazione personale, il chiodo cui appendere una rinnovata fase diplomatica.
Relazioni amicali
Questa modalità, che punta molto sulla relazione personale tra i leader, Xi Jinping l’aveva già sfoderata con Obama. Al termine degli incontri sino-indiani sarebbero almeno 24 gli accordi firmati per un valore complessivo di oltre 22 miliardi di dollari. «Le intese – si legge in un comunicato congiunto – riguardano industrie di diversi comparti, tra cui energie pulite, infrastrutture, acciaio e piccole medie imprese, e riflettono l’interesse delle società cinesi a investire in India e a contribuire all’iniziativa Make in India».
Avviata anche una collaborazione nel settore cinematografico per far conoscere Bollywood in Cina. Tra gli accordi spicca quello siglato da Bharti Airtel (principale operatore telefonico indiano) con una banca cinese per una linea di credito di 2,5 miliardi di dollari per potenziare la rete internet in India e in altri 20 Paesi in Asia e Africa dove è presente.
Secondo i media internazionali, i due sono considerati i leader più «forti» che i due Paesi abbiano prodotto negli ultimi decenni. «Il tentativo di costruire tra di loro una relazione personale solida – hanno scritto le agenzie – è stato sancito dalla visita di Xi Jinping nel Gujarat, la regione della quale è originario Modi (quattro mesi fa, nel corso del suo viaggio ufficiale in India) e confermato dalla presenza di Modi a Xian, patria della famiglia del leader cinese».
Quest’ultima è una scelta particolare: «originale» secondo i media cinesi, non abituati a veder ricevere importanti uomini politici, in una cornice differente da quella di Pechino. Una bella gara a stupirsi. Anche perché – forse in risposta all’iscrizione di Modi a Weibo, il Twitter cinese ipercontrollato dalla censura locale – dopo l’esercito di terracotta, il giro turistico di Modi è proseguito al tempio buddista di Daxingshan, dove monaci indiani tradussero in cinesi alcune iscrizioni religiose e poi è stato infine protagonista di una cerimonia di benvenuto all’interno di una esibizione che riecheggiava la dinastia cinese Tang.
Modi e Xi hanno alcune cose in comune, una di queste è quella di essere considerati dei modernizzatori. Un appellativo che stenta a riconoscersi nella loro azione di governo. Sicuramente Xi Jinping si è presentato al mondo come un riformatore, ma nel suo primo biennio di governo ha ingaggiato una lotta senza tentennamenti nei confronti della libertà di espressione e della corruzione. Due facce della stessa medaglia, insieme alla volontà di gestire in modo energico il rallentamento economico cinese.
Quanto all’India, la Cina ha pensato a fondo ai propri interessi. I colloqui odierni, infatti, finiranno per essere concentrati sul business. Pechino è infatti il maggior partner economico di Nuova Delhi, con un volume degli scambi reciproci di 71 miliardi di dollari e un deficit del commercio indiano cresciuto in modo clamoroso nel giro di poco di un decennio, passando dal miliardo di dollari del 2004-2002 ai 38 del 2014. Tutto bene? Quasi. Il terremoto in Nepal ha reso evidenti le frizioni tra i due paesi con la cinica gara tra India e Cina per aiuti e interessato sostegno, con Modi che è già stato due volte a Katmandu.
Entrambi si considerano player globali e la mossa di un paese non passa inosservato nell’altro. L’India è entrata nella banca di investimenti cinesi, e questo è un segno di buon auspicio. Ma mentre la Cina arrangiava con il Pakistan un piano di 60 miliardi per arrivare fino a Gandwar, che gli indiani danno ormai per persa, Modi (oltre al Vietnam) si è avvicinato all’Iran. Il Wall Street Journal ha riportato che «la scorsa settimana l’India ha firmato un accordo con l’Iran per sviluppare un porto non lontano da un porto cinese costruito in Pakistan. Nel suo viaggio, Modi sosterà anche in Mongolia e Corea del Sud, uno stretto alleato americano. «Modi ha una politica dura con la Cina, e la Cina l’ha notato» – ha detto Jayadeva Ranade, un esperto di Cina ed ex membro del National Security Advisory Board dell’India».
La Cina subito dopo l’India ha affrontato un altro nodo, quello degli Usa e delle zone di mare conteso del Pacifico. A Kerry, giunto a Pechino, una risposta secca: l’atteggiamento della Cina non è in discussione. È stato proprio Xi JInping a sottolinearlo, ribadendo un suo chiodo fisso: la Cina vuole tornare egemone nel Pacifico e difendersi dagli Usa, che entro il 2020 schiereranno nel Pacifico il 60 per cento della propria forza navale.
La leadership di Xi
Ci si è chiesti molto a lungo che tipo di leadership stia proponendo Xi Jinping alla Cina, specie dopo le peripezie che hanno visto protagonista Bo Xilai. Nel 2007 tutti si aspettava la sua nomina a vice capo della Commissione centrale militare, viatico per i futuri numeri uno. Qualcosa andò storto; Xi fu promosso vice capo l’anno successivo, quello delle Olimpiadi. E proprio nel 2008 cominciò a farsi notare la stella di Bo Xilai. Tanto che off the record, non erano pochi i funzionari cinesi a consigliare cautela nella successione politica.
Se Xi Jinping e l’entourage al potere fossero arrivati ad un compromesso con Bo Xilai, forse tutto sarebbe funzionato al meglio. Si diceva che Bo Xilai sarebbe potuto diventare il numero due, o un futuro ministro della Propaganda. Ma in quegli anni si ignorava completamente cosa stesse accadendo dentro al Partito. Anzi, Hu Jintao e Wen Jiabao, avevano tutto l’interesse a specificare che si sarebbe trattato della successione politica più tranquilla nella storia cinese.
Xi Jinping era ormai candidato a diventare numero uno, Li Keqiang, pupillo di Hu Jintao (e gregario della Lega dei Giovani comunisti, il feudo di Hu) sarebbe stato al numero due. Bo Xilai si sarebbe dovuto accontentare. Come sappiamo Xi Jinping alla fine ha prevalso, non senza qualche mistero. Poco prima di essere nominato numero uno, infatti, Xi è sparito, scomparso per almeno due settimane. Si erano fatte tutte le ipotesi e chissà quale sarà quella corretta. Di sicuro Xi Jinping sa come regolare i conti.
Appena nominato si è presentato al mondo e ai cinesi (che lo conoscevano decisamente poco) come un leader occidentale appena eletto. Ha provato a battere il suo rivale, Bo Xilai, con il tentativo di essere sciolto e fotogenico di fronte alle telecamere degli occidentali, dimostrando di saper sfruttare bene anche la propaganda interna.
«Zio Xi», oggi lo chiamano i cinesi, nell’ambito di un generale prodotto – quello del «leader» – che sembra riportare la Cina verso un culto della personalità del leader che – complice il ricordo di Mao – era stato abiurato dalla precedenza dirigenza in nome di una sorta di gestione «collettiva» del Partito e del potere. Xi, mattone dopo mattone, in due anni ha saputo costruire un suo «culto» basato su caratteristiche specifiche e che sembra funzionare. Un uomo del popolo, duro contro la corruzione e gli Stati uniti, ma abile nel guidare la Cina nelle tempeste della geopolitica mondiale.
E questa sua attuale posizione nel panorama cinese, potrebbe spingere Xi a schiacciare sull’acceletarore, tanto che si parla già della possibilità che l’uomo che ha vissuto nella caverna e che ogni tanto va a mangiare in ristoranti popolari, possa prolungare il suo comando sul paese, al di là de dieci anni canonici. È ancora presto, per dirlo, ma questa voce corre rapida a Zhongnanhai, il Cremlino cinese.
[scritto per il manifesto; Fotocredit: tinmoi.vn]