Lo Shangri-La Dialogue tra Macron, Hegseth e l’assenza della Cina

In Relazioni Internazionali by Lorenzo Lamperti

Il presidente francese propone una “terza via” alternativa alle grandi “potenze disinibite” tra assertività militare e dazi unilaterali. Il capo del Pentagono chiede di scegliere da che parte stare e un aumento esponenziale delle spese di difesa. Pechino non invia il suo ministro della Difesa ed evita un confronto

Singapore – “Così come dobbiamo insistere a dire che la Russia non può prendersi pezzi del territorio dell’Ucraina senza reazione, non possiamo concedere a Israele di fare qualsiasi cosa a Gaza, altrimenti abbiamo doppi standard”. Venerdì sera, Emmanuel Macron ha inizia così il suo esame asiatico, nel primo discorso di sempre di un leader europeo in apertura dello Shangri-la Dialogue di Singapore, il massimo vertice di sicurezza dell’Asia-Pacifico. Atteso dall’incontro di martedì con Giorgia Meloni, il presidente francese pronuncia un discorso che non piacerà a nessuna delle grandi potenze, da lui definite “disinibite”. Alla Cina non piacerà il parallelo tra Ucraina, Filippine e soprattutto Taiwan. “La sicurezza di Europa e Asia è interconnessa. Se consentiamo il mancato rispetto di sovranità e integrità territoriale da noi, può succedere anche altrove”, dice Macron, che lancia poi qualcosa a metà tra un appello e un avvertimento a Pechino: “Deve prendere le distanze dall’alleanza militare tra Corea del nord e Russia, contribuendo a tenere sotto controllo Pyongyang, altrimenti non può poi lamentarsi per il rischio di ritrovarsi la Nato in Asia”, dice il presidente francese, ricordando che proprio lui ha rallentato il progetto di Washington di aprire un ufficio di collegamento dell’Alleanza atlantica in Giappone.

Ma ampie parti del discorso di Macron sembrano indirizzate a Donald Trump. “La Francia è un amico e un alleato degli Usa, ma siamo amici anche della Cina, pur in competizione e in disaccordo su alcuni temi. Vogliamo andare avanti così, a tutela della nostra autonomia strategica. Vogliamo lo stesso approccio per Europa e Indo-Pacifico: cooperare non significa dipendere”. Forti le critiche sui dazi e sui passi indietro della Casa bianca nel contrasto al cambiamento climatico, che “creano nuove crisi e uccidono la nostra credibilità nel sud globale”. Macron propone una “terza via francese” e chiede ai paesi asiatici di “rigettare la logica dei blocchi”, superando il semplice non allineamento per promuovere “nuove coalizioni” per tutelare i “tanti interessi comuni tra Europa e Asia”, tra cui libero commercio e difesa. Obiettivo, “assicurarci di non diventare vittime collaterali delle scelte fatte dalle superpotenze”.

Ad ascoltare Macron, non c’era il ministro della Difesa cinese Dong Jun. Contravvenendo alla prassi degli ultimi anni, Pechino ha inviato solo una delegazione minore di funzionari e accademici, negando il primo confronto di alto livello sulla difesa. Non un buon auspicio, visto che i colloqui del 2023 e 2024 con l’allora capo del Pentagono, Lloyd Austin, erano serviti ad abbassare le tensioni militari. Tra le numerose delegazioni europee non ce n’è una dall’Italia, presente con l’ambasciatore a Singapore Dante Brandi.

Sabato è stata la volta degli Usa. “La minaccia posta dalla Cina è reale. E potrebbe essere imminente. Speriamo di no, ma potrebbe certamente esserlo”. Pete Hegseth esordisce così, al suo primo Shangri-la Dialogue da capo del Pentagono. Il segretario della Difesa degli Stati uniti irrompe al massimo incontro sulla sicurezza dell’Asia pacifico senza troppi convenevoli, con un discorso che celebra più volte “l’ethos del guerriero”, che lui e Trump starebbero instillando in un’America che sostiene essere stata indebolita da Joe Biden. Poco importa che Singapore, vero padrone di casa, sia l’esempio vivente della diplomazia e della cooperazione non allineata. A queste latitudini, l’ex capo del Pentagono Lloyd Austin aveva negli scorsi anni garantito che un conflitto con la Cina “non è imminente, né inevitabile”, rassicurato sull’impegno degli Usa in Asia-Pacifico e sulla tenuta del sistema di alleanze fondato sui valori, sottolineato la centralità dell’Asean.

Il cambio di passo di Hegseth rispetto al predecessore è drastico. Nessuna menzione del ruolo dell’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico, netto rifiuto di un approccio bilanciato tra le potenze. “La dipendenza economica nei confronti della Cina amplia la sua maligna influenza”, avverte, auspicando di fatto un derisking che sa di decoupling. Insomma, la richiesta è quella di scegliere da che parte stare. Bianco o nero, in una regione che ha prosperato grazie alla sua flessibilità. Eppure, molti paesi della regione sono rimasti spiazzati dai dazi imposti da Trump e che rischiano di colpire più loro che altri.

Quando si parla di partnership, il tono verso l’Asia è suonato “paternalistico”, come sottolinea Tammy Duckworth, democratica presente a Singapore con una delegazione bipartisan del Senato. “Per decenni abbiamo garantito la sicurezza ai confini altrui, ora è venuto il tempo di dare precedenza al nostro”, afferma. D’altronde, alcune navi della guardia costiera statunitense dispiegate in Asia sono di recente rientrate negli Usa. Ecco perché qualcuno storce il naso, quando Hegseth garantisce che la priorità di Trump è l’Indo-Pacifico. “Non siamo qui per fare prediche moralistiche sul vostro modello politico o sul cambiamento climatico”, dice Hegseth, la cui prospettiva sulle alleanze regionali gira intorno alla richiesta di aumento esponenziale delle spese militari. “Un’alleanza non può essere di ferro se contribuisce solo una parte”, avverte. La richiesta, inedita, è di “prendere esempio” da alcuni paesi europei “come la Germania” e impegnarsi ad alzare il budget di difesa, idealmente attorno al 5%. Numeri utopistici anche per i più allineati come Giappone e Filippine, nonostante la netta tendenza regionale al riarmo.

D’altronde, già durante il suo primo mandato Trump era entrato in rotta di collisione coi paesi asiatici su questo tema. Alla Corea del sud aveva chiesto un aumento del 400% dei contributi per i circa 29 mila soldati americani presenti sul suo territorio. Seoul si era poi accordata per un aumento del 4% con l’amministrazione Biden. Tema molto attuale, visto che due giorni fa il comando dell’Indo-Pacifico ha ufficializzato il ritiro di un’unità missilistica Patriot dalla Corea del sud, col suo dispiegamento in Medio oriente. Il tutto senza colloqui preliminari con Seoul, che vede proprio nei Patriot una garanzia contro i missili della Corea del nord, che peraltro è sempre più vicina alla Russia. Secondo il Wall Street Journal, la Casa bianca starebbe valutando anche il richiamo di circa 4500 truppe dalla Corea del sud. Indiscrezioni che non danno certezze sulla stabilità della presenza degli Usa, da cui però arrivano richiami sempre più urgenti sul rischio di utilizzo della forza da parte della Cina su Taiwan o sul mar Cinese meridionale. “Si stanno preparando per cambiare lo status quo, sullo Stretto fanno le prove per un attacco vero e proprio”.

L’ambasciata di Pechino a Singapore ha definito le parole di Hegseth “provocazioni e istigazioni anti cinesi”, bollando gli Usa come “il più grande disturbatore della pace e della stabilità dell’Asia-Pacifico”. Nessuna possibilità di confronto diretto, visto che come detto la Cina ha scelto di non inviare a Singapore il suo ministro della Difesa, evitando così un incontro con Hegseth.

Di Lorenzo Lamperti

[Pubblicato su il Manifesto]