Tutto è cominciato mercoledì 22 luglio, quando l’azienda statale Tonghua Steel Group, produttrice di acciaio, ha annunciato quanto si attendeva dal 2005, ovvero l’acquisizione da parte dalla privata Jianlong Steel Holding Company di Pechino. Secondo le testimonianze anonime su alcuni blog on line, all’annuncio i lavoratori si sarebbero organizzati in modo spontaneo, avendo saputo di un incontro nella sede della Tonghua, nella provincia di Jinlin, tra i manager delle due aziende. Il loro obiettivo era protestare contro un’acquisizione che avrebbe portato a molti licenziamenti: 5 mila dei 30 mila lavoratori avrebbero perso il lavoro. Cento di loro, informati dell’incontro, si sono presentati presso la sede della riunione, mentre nella fabbrica cominciava una sorta di sciopero spontaneo. Uno dei protagonisti dell’accordo, Chen Guojun, il direttore generale della Jianlong Steel Holding Company, avrebbe affrontato i lavoratori, invitandoli a tornare al proprio posto in fabbrica.
A quel punto Chen Guojun è stato preso e letteralmente ammazzato di botte, mentre nel frattempo 10 mila lavoratori circa (30 mila secondo un’organizzazione umanitaria di Hong Kong) erano accorsi. Il manager, secondo alcune testimonianze, sarebbe finito nel mirino degli operai anche in ragione del suo salario, circa 300 mila euro all’anno, rispetto ad un mensile di un lavoratore che spesso stenta ad arrivare ai 200 euro. Secondo alcuni poliziotti i contestatori avrebbero poi impedito all’ambulanza di intervenire, fino alla scoperta del tragico epilogo: Chen Guojun era morto.
Per motivi di ordine pubblico il governo, a malincuore, ha bloccato l’acquisizione già programmata, in uno dei settori vitali per l’economia locale: la Cina è infatti il primo produttore e consumatore di acciaio nel mondo. L’episodio, riportato dal South China Morning Post era già girato in alcuni blog cinesi ospitati dalla piattaforma on line di163.com, nella notte di venerdì, quando nei dintorni della fabbrica si vedevano ancora i fuochi degli scontri tra operai e polizia. Tanto che alcuni abitanti della zona si chiedevano se il fatto costituisse «una vittoria dei lavoratori, una sconfitta del governo o la semplice morte di un manager strapagato, a fronte di molti operai a rischio disoccupazione».
Quello che è certo è che l’anno del sessantesimo anniversario della Repubblica Popolare – molto sentito perché i cinesi considerano sei decenni un ciclo completo di vita – se è andato liscio per le scadenze più sensibili, Tibet e Tian’an men, è andato decisamente storto per quanto riguarda le proteste popolari. A parte i clamorosi disordini di Urumqi del 5 luglio, nel 2009 si sono contati, secondo il China Election, almeno 80 mila casi di «incidenti di massa».
Ovvero scontri contro le autorità, molto spesso causati da lavoratori: segnale evidente di uno sviluppo squilibrato che comincia a fare pesare le sue conseguenze sociali. Sono milioni i lavoratori migranti disoccupati, così come tanti cominciano a essere i laureati che non trovano lavoro.
Gli «incidenti di massa» non trovano quasi mai spazio sui media cinesi, ma scorrono nella sottile linea del web, tra censura, siti oscurati e arresti. Spesso si tratta di sollevazioni popolari contro funzionari considerati corrotti o immorali. L’ultimo caso è di alcune settimane fa, quando l’omicidio di una una ragazza ufficialmente morta per una gravidanza extrauterina, ha scatenato proteste contro la polizia locale, accusata di coprire il caso per nascondere responsabilità proprio del capo delle forze dell’ordine, accusato di avere violentato e stuprato la giovane donna.
[Pubblicato su Il Manifesto del 28 luglio 2009]