La Cina conferma l’uccisione di un cinese da parte dell’Isis, che lo ha annunciato nella sua rivista, Dabiq, mentre voci diffondono la notizia di un’esecuzione di 17 persone dello Xinjiang, comprese donne e bambini, in quanto facenti parte dei gruppi famigliari di «terroristi» che avrebbero causato la morte di 50 persone in un attacco, alcuni mesi fa. A conferma del «problema interno» xinjianese di Pechino. La notizia è stata diffusa da Radio Free Asia: le forze di sicurezza cinesi nella regione occidentale del Xinjiang avrebbero ucciso 17 persone, tra cui donne e bambini, accusate di essere coinvolte in un attentato in una miniera di carbone di due mesi fa, che avrebbe causato almeno 50 morti, quasi tutti di etnia han.
Si tratta di una delle tante notizie che arrivano dalla regione cinese, di difficile verificabilità. Radio Free Asia è una voce molto critica del governo di Pechino e dalle autorità locali xinjianesi non sono arrivate conferme né smentite.
Come riportato dal South China Morning Post, «Il governo non ha fatto alcun commento pubblico riguardo all’attacco del 18 settembre avvenuto alla miniera Sogan a Aksu, Radio Free Asia ha riportato che la maggior parte delle vittime erano membri della maggioranza cinese Han e la polizia accusa separatisti armati di coltello. Radio Free Asia, citando la polizia del Xinjiang, ha detto che i 17 uccisi erano tutti gli indagati per l’attacco, inclusi tre uomini che si ritiene fossero stati i leader e i loro familiari».
Nel frattempo sono giunte notizie ufficiali sulla sorta del prigioniero cinese in mano ai miliziani dell’Isis. «La Cina ha promesso di “assicurare alla giustizia” i responsabili dell’esecuzione di uno dei suoi cittadini dopo che lo Stato islamico ha reso noto di aver ucciso un prigioniero cinese, il primo e finora unico ostaggio cinese detenuto dal gruppo», ha scritto la Reuters, specificando che lo Stato islamico ha comunicato di aver ucciso un norvegese e un prigioniero cinese, mostrando quelle che sembravano essere le immagini dei morti sotto la scritta «giustiziato», nell’ultima edizione della sua rivista in lingua inglese, Dabiq.
Sulla vicenda c’è solo l’ufficialità, ma non c’è alcun dettaglio, sul luogo dell’esecuzione e la data. In una breve dichiarazione, il Ministero degli Esteri cinese ha confermato l’identificazione dell’uomo per la prima volta, dicendo che si chiamava Fan Jinghui e che era stato «crudelmente assassinato».
A settembre Pechino aveva comunicato che uno dei suoi cittadini sembrava essere stato rapito nello Stato islamico, mesi dopo le prime notizie circa la presenza anche di cinesi, invece, nelle file dei miliziani di Daesh (nella foto)
Dopo il rapimento, il governo cinese ha attivato un meccanismo di emergenza per cercare di salvarlo, ma Fan è stato comunque ucciso «a sangue freddo», secondo quanto dichiarato dal Ministero. Fan era un consulente, secondo la ricostruzione di Beijing News, aveva 50 anni e lavorava nel campo della pubblicità (con un’azienda che però sarebbe stata chiusa nel 2003).
Il ministro degli esteri cinese, in un comunicato ha affermato che «il governo cinese condanna fermamente questo atto selvaggio privo di umanità e certamente porterà i criminali davanti alla giustizia, ci opponiamo risolutamente a tutte le forme di terrorismo e a tutte le attività criminali, terroristiche e violente che sfidano le linee di fondo della cultura umana. La Cina continuerà a rafforzare la cooperazione antiterrorismo con la comunità internazionale per mantenere la pace e la tranquillità nel mondo».
Analoga condanna è arrivata dal leader cinese, il presidente Xi, che in visita a Manila per un vertice regionale, ha detto di «condannare fortemente» l’uccisione come riportato dall’agenzia di stampa ufficiale cinese, la Xinhua.
[Scritto per East online; foto credit: krone.at]