La Casa bianca colpisce tutti indiscriminatamente, alleati compresi. Pechino prepara le ritorsioni, Tokyo e Seul negoziano. Conseguenze notevoli sui paesi del Sud-Est asiatico
Il giorno della liberazione assomiglia a una condanna, in Asia. I dazi di Donald Trump colpiscono indiscriminatamente tutti, da quelli che Washington vede come nemici a quelli che ha sempre visto come amici. È così che funziona il protezionismo, d’altronde. Principale bersaglio, ça va sans dire, la Cina. Dopo i due round da 10% ciascuno di febbraio e marzo, imposto un ulteriore 34%. A Pechino si aspettavano di arrivare a un totale del 40% e invece siamo al 54%, appena sotto quel 60% minacciato da Trump in campagna elettorale e che sembrava uno spauracchio lontano. Secondo esperti citati da Nikkei, la Cina potrebbe pagare un prezzo non banale, vedendo ridurre dell’1,3% la crescita del prodotto interno lordo nel 2025.
D’altronde, nessuno si avvicina nemmeno alle vendite annuali di Pechino negli Stati uniti, superiori ai 400 miliardi di dollari nonostante le tensioni commerciali e strategiche dell’ultimo decennio. Un bel problema per Pechino, la cui economia è ancora assai dipendente dalle esportazioni, a maggior ragione dopo la debolezza dei consumi che non si sono ancora del tutto ripresi dopo la pandemia. Per attutire il colpo, il governo ha annunciato ieri un nuovo piano di sostegno al settore tecnologico e starebbe preparando un ulteriore allentamento monetario, sostegni fiscali per stimolare i consumi interni e norme più flessibili per favorire gli investimenti esteri. Un segnale in tal senso arriva dal via libera al colosso auto giapponese Toyota per la costruzione di un impianto di produzione a Shanghai, senza bisogno di una joint venture con un partner locale.
Il governo cinese ha denunciato i dazi come “una pratica di bullismo unilaterale” e prepara le ritorsioni. Già nei due round precedenti di tasse aggiuntive, la Cina ha risposto immediatamente con contro dazi mirati contro petrolio, gas e industria agroalimentare. Ora potrebbe esserci un salto di qualità. Già da qualche settimana, il governo cinese ha rallentato gli acquisti di gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti e sarebbe pronto ad aumentare la stretta sulle esportazioni di terre rare, risorse minerarie e metalli cruciali per la produzione di chip e per l’industria tecnologica verde. Su molte di queste risorse la Cina ha una posizione dominante e un blocco delle spedizioni avrebbe un impatto notevole. Possibile anche la svalutazione della moneta, mentre si approfitta dell’insoddisfazione generale sui dazi di Trump per provare a migliorare i rapporti con i vicini asiatici e con la stessa Europa.
Ci sta in parte riuscendo con Giappone e Corea del sud, alleati americani colpiti da dazi al 24 e 26%. “Estremamente deplorevole”, ha commentato il governo giapponese, già sul piede di guerra dopo i dazi sulle auto imposti la scorsa settimana e che sono destinati ad avere un impatto devastante sul principale settore dell’export di Tokyo. A Seul, le tasse aggiuntive verranno trattate come una “emergenza nazionale”. Persino Taiwan, impossibilitata ad aumentare tatticamente il dialogo con Pechino, protesta: “I dazi sono profondamente irragionevoli”, ha detto Taipei. Resta difficile aspettarsi ritorsioni vere e proprie dai partner Usa, almeno in questa fase. Si proverà a negoziare, garantendo maggiori acquisti e fissando un tetto all’export. Ma ci si potrebbe smarcare dalle restrizioni sulle spedizioni del comparto tech.
“Cedere o fare concessioni significa rendere più forte il bullismo americano”, scrivono però i media cinesi, auspicando una risposta comune. Nei prossimi giorni e settimane, Xi Jinping ribadirà il concetto a una lunga serie di leader internazionali. A partire dal premier spagnolo Pedro Sanchez, atteso a breve a Pechino, un paio di mesi in anticipo su Emmanuel Macron. Tra una decina di giorni, il presidente cinese sarà invece in viaggio tra Vietnam, Malaysia e Cambogia, per serrare i ranghi degli scontenti e provare a proporre un rafforzamento di catene di approvvigionamento alternative.
Tutto il Sud-Est asiatico è stato infatti preso di mira da Trump. Hanoi subisce dazi aggiuntivi del 46%, nonostante nei giorni scorsi avesse tagliato le tariffe sui prodotti americani. Per Phnom Penh si sale addirittura al 49%, mentre al terremotato e disastrato Myanmar è riservato il 44%. Una grossa differenza rispetto al primo mandato, quando diversi paesi dell’area si erano avvantaggiati di effetti collaterali positivi della fuoriuscita di linee produttive e investimenti dalla Cina per portarseli in casa. Accumulando però un enorme surplus commerciale, che li ha fatti finire a loro volta nel mirino della Casa bianca. “Il protezionismo di Trump pare destinato a creare diverse costellazioni che aumentando la cooperazione fra loro cercheranno di sopperire alla chiusura del mercato statunitense”, dice l’ambasciatore Michelangelo Pipan, presidente dell’Associazione Italia-Asean.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su il Manifesto]
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.