Vincitore nel 2020 del Taiwan Literature Award, Città Fantasma dell’autore taiwanese Kevin Chen è un viaggio a ritroso tra i segreti e i traumi della famiglia Chen alla ricerca della propria identità. La recensione di Letture Asiatiche, la rubrica sulla letteratura in Cina e in Asia a cura di Linda Zuccolotto
“Dov’è nato lui, le gocce suonano un concerto di cembali e tamburi sulle lamiere del tetto. Avrebbe dormito solo col sottofondo della pioggia. Per questo è tornato, per il rumore della pioggia.”
Yongjing, letteralmente pace e tranquillità eterna, è un villaggio rurale dove la modernità non è mai veramente arrivata. Nella canicola che incendia l’estate, il settimo mese del calendario lunare, le porte del regno dei morti si aprono. I fantasmi vagano liberamente e i vivi si adoperano in una serie di riti e scongiuri: bruciare soldi finti, presentare offerte, ma non viaggiare, traslocare o rivoltare la terra nei campi. Il 15° giorno di questo mese si celebra Zhongyuanjie 中元節, ovvero la Festa degli spiriti. È durante questa ricorrenza particolare che Tien-hung, soprannominato il Piccolo, ultimo di sette fratelli della famiglia Chen, torna al villaggio natio dopo gli anni di prigione per l’omicidio del compagno a Berlino.
Da qui parte il racconto di “Città fantasma”, romanzo dello scrittore taiwanese Kevin Chen (pseudonimo di Chen Sihong), pubblicato in Italia da edizioni e/o nella traduzione dal cinese di Silvia Pozzi. La storia si svolge in un giorno solo e la narrazione è affidata a una moltitudine di personaggi, vivi e morti, che, tra un flashback e l’altro, pagina dopo pagina svelano i segreti e i traumi della famiglia Chen.
Yongjing è soffocante, non solo per l’afa estiva che toglie il respiro. Un paese ancorato alle tradizioni e alle superstizioni, popolato di fantasmi dai quali viene inculcato sin da piccoli di stare alla larga. Ma chi sono i fantasmi di cui parla Kevin Chen? Lo stesso autore nella postfazione al romanzo ammette di essere ancora alla ricerca di una risposta. In effetti, il termine gui 鬼, presente nel titolo originale e spesso ricorrente nel libro (234 volte!), ha svariati significati e non una singola traduzione. In molti paesi dell’Asia, spiriti e fantasmi infestano i racconti popolari e i miti tradizionali, e rivestono un ruolo centrale nella cultura e nella società. Quelli che si aggirano tra le pagine di questo romanzo sono molteplici: sono i morti divenuti spiriti, ma sono anche i vivi stessi, che almeno una volta hanno desiderato di essere invisibili, o addirittura di morire, per non dover subire le violenze quotidiane e fare i conti con i traumi del passato.
“I fantasmi non li sognava. Non ci crede più. E comunque non gli fanno paura, sono innocui. Ha più timore dei vivi.”
Madre di sette figli, A-chan è allo stesso tempo vittima e prosecutrice di un sistema che privilegia il figlio maschio. La strenua ricerca dell’erede di casa Chen la porta a sfornare, una dietro l’altra, cinque femmine, figlie indesiderate alle quali il destino riserverà vite insignificanti e infelici, intrappolate in relazioni tossiche. Ma un figlio “pervertito” può essere una disgrazia anche peggiore. E così quando l’omosessualità del Piccolo viene scoperta, la violenza esplode. Le mani della madre, infatti, sanno colpire duramente, ma a far male sono anche le parole, che feriscono come pugnali, e l’indifferenza di chi assiste impassibile ai soprusi.
“Lo picchiava selvaggiamente. I pugni erano come pugnali, i calci come spade. Ma la sua arma letale era la bocca. Lo copriva di oscenità in taiwanese e ogni parola bruciava. Lui non reagiva quando lo pestava. Si sentiva in colpa perché era anormale, un pervertito. Aveva ragione lei: è colpa sua, lui è la rovina della famiglia Chen. È una vergogna averlo messo al mondo. Doveva fermarsi al primo maschio.”
Nonostante la violenza non manchi, sia fisica che verbale, “Città fantasma” restituisce al lettore anche immagini vivide della quotidianità in un villaggio rurale dove la vita scorre lenta e la natura pervade i sensi, ma può essere a volte impetuosa. Sembra quasi di sentire il profumo dei bah-huan fumanti, della frutta matura del caramboleto e della fabbrica di salsa di soia, di percepire il rumore della spatola della madre nel wok, il frinire delle cicale e il suono delle gocce di pioggia nei campi o sui tetti di lamiera di Taipei.
Forse è questo il motivo per cui, anche quando il luogo natio è sinonimo di traumi ed esperienze negative, attrae inevitabilmente a sé. Lo scrittore stesso, di cui il protagonista del romanzo è una sorta di alter ego, afferma che Yongjing è il posto da cui fugge e di cui scrive sempre.
“Sa di essere a casa. La casa in cui è cresciuto. Dove tutto ha avuto inizio. Il punto di partenza. La casa che ha cercato in ogni modo di lasciare. La casa che non lo voleva. La casa dove non è il benvenuto.”
Tien-Hung, tornato in quel buco di mondo dal quale era fuggito anni prima, ricerca tutti quei sapori e quei rumori di cui ha provato nostalgia durante i suoi anni nella Berlino fredda e solitaria. Tutto è cambiato, tutto è rimasto esattamente come prima. I ricordi comuni giacciono sopiti in fondo al cuore, nessuno ha il coraggio di rievocare i fantasmi del passato, di affrontare l’elefante nella stanza (in questo caso potremmo dire l’ippopotamo!).
“Città fantasma” non è un romanzo lineare, gli sbalzi temporali e l’alternanza delle voci dei diversi narratori a volte possono risultare disorientanti, ma la caratterizzazione sempre più dettagliata dei personaggi e lo svelarsi progressivo dei loro segreti rende il ritmo di lettura crescente. Voltata l’ultima pagina è inevitabile fermarsi a pensare a quanto risulti reale un romanzo che parla di fantasmi.
Di Linda Zuccolotto