Letteratura e viaggio: le origini e la realtà

In by Simone

Jarmila Ockayova, Giovanni Porzio e Lorenzo Pavolini incontrano gli studenti dell’Università di Pechino.

Un uomo, o un donna, si sa, non viene dal nulla, ma innanzitutto dal contesto storico nel quale nasce e cresce. Lo stesso accade ad i personaggi che troviamo nella narrativa. O almeno è così nei romanzi di Jarmila Ockayova. Nata nella Repubblica Slovacca quando il suo paese si chiamava ancora Cecoslovacchia, Jarmila ha studiato e vissuto in Italia per gran parte della sua vita. La storia (quella con la “s” maiuscola) fa infatti da sfondo nei suoi racconti. Legami. Quello tra gli uomini e il contesto storico dal quale escono fuori.
Autrice profonda ed acuta, Jarmila usa metafore per spiegare agli studenti presenti il problema lingustico che si trova ad affrontare uno scrittore che pubblica in una lingua non sua. Strumento per capire lo spessore umano, la lingua non è un insieme di parole, ma la “punta di un iceberg”, che nasconde sotto di sé un mondo culturale, storico ed antropologico tutto suo. Imparare una nuova lingua ed usarla per comunicare è come conquistarsi una “nuova dimensione esistenziale”, è un po’ come rinascere. Servirsi della propria lingua per scrivere è come essere una barca sul mare, che procede in superficie. Diverso è invece usare una lingua straniera: si diventa una sorta di palombari, che scendono necessariamente in profondità. Diventando palombari anche della propria lingua madre. 

Opinione simile ha anche lo scrittore Lorenzo Pavolini, nipote del giornalista e gerarca fascista Alessandro Pavolini, appeso al fianco di Mussolini a piazzale Loreto a Milano, in quel famoso 29 aprile 1945. Una imbarazzante parentela che l’autore ha scoperto in giovane età solamente grazie ai libri di storia. Di storie stiamo parlando, storie che hanno come fine quello sacrosanto di far emergere una verità. E qui si nasconde un po’ la differenza tra il giornalista e lo scrittore: il primo ricorre a fatti concreti per mostrare la verità, il secondo può anche far uso di fatti non veri o inventati.

Un diverso carattere, quello tra novellista e inviato di guerra, con il quale Giovanni Porzio si scontra da qualche anno a questa parte. I cambiamenti che negli ultimi quindici anni hanno stravolto il giornalismo e il mondo dell’informazione hanno trasformato Porzio stesso da un cronista ad un autore di romanzi. Due forme diverse di raccontare le atrocità della guerra con gli occhi delle vittime, due forme diverse di arrivare al grande pubblico.
Se fino a qualche tempo fa infatti l’inviato era tenuto ad essere ben informato sul posto che andava a raccontare, spendendo lunghi periodi e stando a contatto con la popolazione locale, oggi l’informazione ha altre priorità. Prima fra tutte il tempo. Il tempo come limite. E la qualità della comunicazione che diventa totalmente legata alla velocità della stessa. Una giornalismo di rapina e fuga. Rispetto e umiltà (e dunque l’assenza dei limiti di tempo) sono invece gli strumenti chiave per capire una realtà, secondo lo stesso Porzio. Discorsi che ci riportano alla memoria gli esempi di grandi inviati come Ryszard Kapuscinski o Tiziano Terzani.

Reporter di guerra che ha visitato oltre centoventi paesi del globo, il giornalista milanese ha anche sottolineato la figura chiave dell’interprete. Una persona del luogo, una persona sul luogo, che non funge solo da mediatore linguistico ma anche e soprattutto culturale, nonché chiave di ingresso nel rapporto con le persone locali, che siano alti funzionari o gente comune. Senza di esso un inviato sarebbe senza bussola. Cosa che Porzio testimonia fisicamente, portando sempre al dito un anello di un suo interprete e amico irakeno, ucciso a Baghdad sull’uscio di casa in una guerra che in troppi conosciamo.