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L’espansione della Muraglia d’Acciaio: strategia e proiezione militare cinese nel mondo

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Negli ultimi decenni, la Cina ha trasformato profondamente la propria strategia militare, ampliando il raggio d’azione dell’Esercito Popolare di Liberazione (Epl) al di fuori dei confini nazionali. Questo cambiamento si inserisce in un contesto di ridefinizione degli equilibri globali, con Pechino che punta a consolidare la propria posizione come potenza militare e a proteggere i propri interessi economici e strategici. Un aspetto chiave di questa evoluzione è il rafforzamento della Marina cinese e l’istituzione di basi militari all’estero, come quella di Gibuti, simbolo di una crescente proiezione internazionale. China Files ne parla con Simone Dossi, professore associato di Relazioni Internazionali alla Statale di Milano, in uscita con il suo nuovo libro “La muraglia d’acciaio. Le forze armate cinesi tra cambiamento e continuità” (Il Mulino, 2025).

In un panorama globale in rapido mutamento, dove il vecchio paradigma dell’ordine internazionale multipolare sembra vacillare e le rivalità geopolitiche si intensificano, la Cina ha messo in atto un approccio alla politica estera sempre più incisivo e proattivo. Per rispondere alle sfide poste da un sistema mondiale in evoluzione, Pechino ha fondato la propria strategia su due aspetti fondamentali: garantire una sicurezza integrata – interna ed esterna – e rafforzare la sovranità nazionale, promuovendo al contempo uno sviluppo economico sostenibile. Questa strategia non solo riflette una trasformazione interna profonda, ma si inserisce in un contesto internazionale caratterizzato da una continua ridefinizione degli equilibri di potere.

Un esempio emblematico della trasformazione della strategia e dottrina geopolitica cinese è l’istituzione della base militare a Gibuti nel 2017, la prima e attualmente unica base cinese all’estero. Situata in una posizione strategica nel Corno d’Africa, davanti allo stretto di Bab-el-Mandeb – che separa il Golfo di Aden dal Mar Rosso -, questa installazione militare rappresenta un nodo strategico fondamentale nella crescente proiezione internazionale dell’Epl, finalizzata alla protezione degli interessi economici e alla sicurezza delle rotte marittime vitali per il commercio cinese. La base cinese di Gibuti costituisce già di per sé un grande segnale di cambiamento all’interno della strategia di Pechino, che tradizionalmente si è sempre mossa mantenendo un basso profilo militare oltremare.

Sebbene la Cina avesse guardato con interesse alle nazioni africane già tempo prima, una svolta politico-militare significativa è maturata nel 2008, con l’inizio delle missioni antipirateria nel Golfo di Aden e con il mantenimento di una presenza navale ininterrotta nella regione del Corno d’Africa. Le successive crisi, quella libica nel 2011 e quella yemenita nel 2015, resero ancora più evidente l’importanza strategica di unaella base.

Un articolo pubblicato nel settembre 2020 sulla rivista militare Sina Military spiega che il principale scopo della strutturaa base di Gibuti è “di fornire una garanzia effettiva alla partecipazione della Cina a missioni di scorta, mantenimento della pace, soccorso umanitario e di altro genere nel Golfo di Aden e nelle acque somale, in modo che la marina cinese possa migliorare le sue prestazioni in missioni di cooperazione militare, esercitazioni congiunte, addestramento, evacuazioni e protezione di cittadini cinesi all’estero, soccorsi di emergenza, (e possa – ndr) adempiere i suoi obblighi internazionali legati allo status di grande potenza, cooperando con tutte le parti per mantenere la sicurezza delle vie d’acqua internazionali strategiche e insieme ad altri proteggere la pace e la stabilità in Africa e nel mondo”. Sebbene sia ufficialmente questa la funzione dell’avamposto cinese, è chiaro il ruolo strategico che la base gioca nel consentire a Pechino non solo di rafforzare la propria presenza nel continente africano, ma anche di proteggere i crescenti investimenti economici nell’ambito della Belt and Road Initiative (BRI).

Secondo quanto spiega a China Files Simone Dossi, professore associato di Relazioni Internazionali alla Statale di Milano, autore di La muraglia d’acciaio e editor in chief di OrizzonteCina, “l’integrazione della Cina nel sistema economico globale ha portato all’emergere di nuovi interessi di Pechino all’estero. Si tratta di interessi in contesti regionali anche molto lontani dalla tradizionale periferia del paese. Sin dai primi anni Duemila la protezione di interessi di questo tipo è entrata a far parte dei compiti dell’Esercito popolare di liberazione, concentrato sino ad allora su più tradizionali compiti di difesa del territorio nazionale.

Negli ultimi vent’anni l’Epl ha rafforzato le proprie capacità di proiezione al di fuori del contesto regionale e la base di Gibuti rientra in questa logica. Ma non si tratta di capacità di proiezione a tutto tondo come sono quelle, per intenderci, delle Forze armate americane. Quelle cinesi sono capacità funzionali ad alcune missioni specifiche e piuttosto circoscritte: per esempio le operazioni di contrasto alla pirateria, operazioni di evacuazione di civili in contesti di conflitto, operazioni di peacekeeping”.

In futuro, si prevede che Gibuti possa perdere la sua esclusività. Secondo fonti e valutazioni del Pentagono, Pechino ha intenzione diin questi anni intenderebbe installare diverse strutture logistico-militari all’estero: in Thailandia, Indonesia, Pakistan e, in particolare, in Cambogia, dove la Cina ha lavorato all’ampliamento della base di Ream è già presente una base navale. Quest’ultima è al centro di speculazioni, poiché immagini satellitari mostrerebbero attività sospette, suggerendo un possibile ampliamento , dove verrannoper ospitatere navi da guerra cinesi ed effettuate esercitazioni congiunte. Washington ritiene che tale base potrebbe rappresentare la prima struttura militare d’oltremare della Cina nella regione indo-pacifica. Tuttavia, il governo cambogiano ha ripetutamente negato tali accuse, sostenendo che la base è destinata esclusivamente alle forze armate locali e che le attività in corso riguardano solo lavori di manutenzione e potenziamento delle capacità navali nazionali.

Insieme a questa maturazione strategica, Pechino ha intrapreso un significativo potenziamento della marina militare, con l’obiettivo, per esempio, di espandere la propria flotta di portaerei – si punta ad averne 6 unità entro il 2030 – e di ampliare progressivamente la propria capacità di ospitare anche navi d’assalto anfibio. Secondo il rapporto China Military Power del Pentagono, l’Epl potrebbe raggiungere una flotta di 435 navi entro il 2030, con un incremento significativo rispetto alle attuali 370 unità, con cui la Cina ha superato gli Stati Uniti per numero di navi. Questa espansione della Marina militare cinese sta suscitando crescenti preoccupazioni tra le potenze occidentali. Pechino sta infatti accelerando la modernizzazione della sua flotta, non solo ampliando il numero di navi, ma anche potenziando le sue capacità operative.

Il principale catalizzator di questa trasformazione – secondo Dossi – è rintracciabile nella questione di Taiwan. “L’Epl ha rafforzato la propria capacità di operare al di fuori della regione, ma il vero orizzonte di riferimento resta la periferia del paese. È qui che si concentrano quelli che a Pechino vengono considerati ‘interessi essenziali’, a partire dalla questione di Taiwan”. La leadership cinese, spiega l’esperto, vorrebbe evitare una riunificazione armata, preferendo una soluzione pacifica: posizione mantenuta sin dai primi anni Ottanta.

L’eventualità di una annessione militare, tuttavia, è ancora concreta, come testimoniano le celebrazioni del 14 marzo scorso per il ventesimo anniversario della ‘Legge antisecessione’, norma che vieta la separazione di Taiwan dalla Cina e autorizza l’intervento militare di Pechino se ritenuto necessario in nome della difesa dell’integrità territoriale. “Accanto al potenziamento delle capacità militari, – continua Dossi – Pechino ha lavorato negli ultimi decenni anche al perfezionamento di strumenti giuridici, interni ma anche internazionali: si pensi all’incessante lavoro della diplomazia cinese attorno all’interpretazione della risoluzione dell’Assemblea generale ONU che nel 1971 aveva sancito l’ingresso di Pechino e l’espulsione di Taipei dall’organizzazione”.

C’è chi sostiene siano così state gettate le basi legali per un’invasione di Taiwan, ma, come affermano Chang Deng Feng, ufficiale delle forze armate della Repubblica di Cina, e Tim Boyle, ufficiale del Navy Judge Advocate General’s Corps, “ci aspettiamo ulteriori manovre legali, poiché Pechino mira a consolidare la propria posizione e a stabilire la superiorità dei principi legali”. Parallelamente all’intensificazione della propria campagna di lawfare, Pechino ha adottato una postura sempre più aggressiva nello Stretto di Taiwan, accelerata da eventi esterni percepiti come provocatori, quali la visita a Taipei dell’ex presidente della Camera degli Stati Uniti, Nancy Pelosi, nel 2022. 

Da quel momento, la Cina ha progressivamente normalizzato le operazioni militari su larga scala, intensificando gli attraversamenti della linea di mezzeria dello Stretto e conducendo pattugliamenti aerei e navali sempre più frequenti, spesso spingendosi fino alle acque territoriali e allo spazio aereo rivendicati da Taiwan. In questo quadro strategico, il piano tecnologico è un elemento sempre più rilevante: la grande muraglia d’acciaio – un’espressione coniata da Xi Jinping per descrivere l’obiettivo di rendere le Forze armate cinesi una muraglia di protezione nazionale, come la storica Grande Muraglia – sta adottando nuovi modelli operativi per adattarsi alla “guerra del futuro”: non solo tecnologicamente ibrida, ma “intelligentizzata”, ovvero implicante l’integrazione dell’intelligenza artificiale nei processi decisionali e nei sistemi d’arma. 

“Sin dai primi anni Novanta – ci spiega Dossi – la Cina ha individuato nell’ ‘alta tecnologia’ uno dei segreti del successo americano sul campo di battaglia: questa era la lezione della Guerra del Golfo del 1991, poi confermata dalle altre guerre della fase ‘unipolare’, come quella del Kosovo. L’Epl ha quindi investito molto in tecnologia, facendo notevoli progressi, benché persistano ancora limitazioni in alcuni ambiti. A questi progressi ha contribuito, naturalmente, il complessivo avanzamento tecnologico del paese: come suggeriscono i più recenti sviluppi nel settore dell’intelligenza artificiale, la Cina è oggi capace di competere con le economie più avanzate anche sul terreno dell’innovazione tecnologica. Ovviamente questo ha ricadute in ambito militare, il che complica il calcolo strategico per i vicini della Cina e per gli stessi Stati Uniti”, conclude l’esperto.

Evolvendo da una strategia di difesa territoriale a una proiezione di potenza sempre più globale, la Cina ha quindi ridefinito il proprio ruolo sulla scena internazionale, sfidando gli equilibri consolidati e suscitando crescente attenzione da parte delle potenze occidentali. Il rafforzamento della Marina, le nuove possibili installazioni militari all’estero e l’integrazione dell’intelligenza artificiale nella dottrina militare sono solo alcuni tasselli di una trasformazione destinata a ridisegnare il futuro degli equilibri strategici globali. Mentre Pechino affina le proprie armi militari e giuridiche, resta aperta la questione di quale sarà l’impatto a lungo termine di questa trasformazione sugli equilibri globali e sulle relazioni internazionali.

Di Maria Vittoria Bruno*

*Laureata con lode in Filosofia all’Università la Sapienza di Roma con una tesi di Filosofia Politica sul neoliberismo, si è specializzata alla magistrale in cooperazione internazionale. Ha lavorato per la società di media monitoring Data Stampa e collabora saltuariamente con Prima Comunicazione.