Le periferie dell’Impero tremano

In by Simone

Nel silenzio dei media di stato il Xinjiang e il Tibet continuano a rivoltarsi contro la dominazione han. Il primo attraverso micro azioni terroristiche, il secondo attraverso sacrifici della vita individuali. Ma il governo centrale continua sulla sua strada e non cede alle "provocazioni separatiste".
Le periferie dell’Impero cinese non sono un esempio di stabilità. Lo Xinjiang, la regione autonoma a maggioranza musulmana dell’Ovest cinese, non compare sui media della Cina continentale da oltre un mese. Il Global Times, spinn off in lingua inglese del Quotidiano del popolo, dà la notizia di 20 condanne. Gli imputati sconteranno pene che vanno dai cinque mesi all’ergastolo “per aver promosso azioni terroriste e separatiste attraverso internet, cellulari e strumenti di comunicazione di massa”. Questo secondo il giudizio del tribunale di Kashgar. Nel frattempo le autoimmolazioni in Tibet hanno superato quota 110 e il portavoce del Governo tibetano negli Stati Uniti ha affermato ieri che Pechino ha il potere di fermare questa carneficina.

Nelle ultime settimane stando a quanto riportato da agenzie internazionali ci sarebbero stati almeno due incidenti, completamente taciuti dai media di stato. A Khotan ci sarebbe stata un attacco esplosivo contro una stazione di polizia. Non si conoscono i dettagli e il numero esatto delle vittime, ma secondo alcuni cittadini della regione, che hanno comunicato via Weibo, l’altro social network cinese, molti poliziotti armati sarebbero stati visti negli aeroporti e presso altri snodi di trasporto dopo la notizia dell’esplosione. Un lavoratore presso un motel avrebbe confermato l’esistenza di “checkpoint e blocchi stradali in tutto il paese”, con controlli serrati in ogni albergo.

Dilxat Raxit, portavoce del World Uyghur Congress in esilio, ha confermato che le misure di sicurezza in Xinjiang sarebbe attualmente al massimo del loro dispiegamento. Molte persone sarebbero state arrestate. Nel mistero anche l’incidente di Korla, avvenuto la scorsa settimana. I morti sarebbero stati quattro ma non è ancora stato accertato se gli assalitori fossero uiguri o meno.

L’episodio ha immediatamente riportato alla memoria gli incidenti scoppiati nel 2009 tra membri della comunità uigura e quella han, che finirono per inasprire le misure di sicurezza nella regione. Il Xinjiang da tempo è considerato uno dei due “problemi interni” della Cina, l’altro è il Tibet. Per ovviare alla potenziale esplosività sociale della zona, Pechino ha provato tutte le carte a sua disposizione. Dapprima ha favorito l’emigrazione di membri della comunità han, che hanno finito per provocare la perdita delle caratteristiche turcofone della regione, trasformando il cuore della civiltà islamica, ad esempio Kashgar, in una città senz’anima e dedita al turismo d’accatto e al commercio tipico delle città cinesi. In secondo luogo ha lanciato la campagna “Go West” per favorire anche gli investimenti stranieri in quella zona del paese e utilizzarla sia come luogo turistico, sia per sfruttarne le sue tante vicinanze geografiche.

Politiche molto simili a quelle adottate nella regione autonoma tibetana. Dove attraverso infrastrutture di alta ingegneria (la ferrovia che collega Pechino a Lhasa è l’esempio più evidente) e l’apertura turistica solo ai cinesi di etnia han o ai viaggi di gruppi (per recarsi nella regione c’è bisogno di un permesso speciale che il più delle volte è valido esclusivamente per la regione di Lhasa) si è favorita la cosiddetta politica di “sommersione etnica”, ovvero il cercare che sempre più cinesi han si trasferiscano nella regione in modo che i tibetani diventino una minoranza come nel resto del paese.

I tibetani che si oppongono all’oppressione di Pechino, hanno scelto una via completamente diversa da quella degli uiguri dello Xinjiang. Dopo le manifestazioni di massa del 2008 represse nel sangue, hanno scelto il gesto estremo del darsi fuoco, nonostante la rligione buddhista non contempli il suicidio. E le autoimmolazioni stanno ricevendo sempre più supporto, almeno emotivo, sia da chi vive nella regione autonoma sia da chi è fuori. Stando a Radio Free Asia, l’ultima vittima sarebbe una madre di quattro bambini che si sarebbe data fuoco domenica scorsa.

Il portavoce del Governo tibetano negli Stati Uniti Lobsang Nyandak, durante una riunione a Washington degli attivisti a favore della democrazia in Cina, ha dichiarato che La Repubblica popolare dovrebbe riprendere il dialogo con il Dalai Lama, nonostante le 9 occasioni che ci sono state tra il 2002 e il 2010 non abbiano dato risultati tangibili. Secondo Nyandak la Cina ha la possibilità di fermare le autoimmolazioni “non intensificando la repressione, ma coinvolgendo i portavoce di Sua Santità [il Dalai Lama] in un dialogo costruttivo”.

[Parti di questo articolo sono state scritte per il Manifesto, parti per Lettera 43; Foto credits: www.24heures.ch]