Le Filippine rischiano letteralmente di annegare

In by Gabriele Battaglia

Manila intende investire nell’immediato in nuove centrali a carbone inquinanti, ma ha un piano serio e già avviato per una diversificazione della produzione sul lungo termine. Questione letteralmente «di sopravvivenza», parafrasando il presidente Benigno Aquino III, che col delegato filippino per i cambiamenti climatici a Parigi rappresenta il gruppo dei V20, i paesi maggiormente minacciati dal riscaldamento globale.Ventitré nuove centrali a carbone per soddisfare la crescente fame energetica di un paese che rischia di essere devastato dagli effetti del riscaldamento globale. Il via libera che il governo di Manila ha concesso nei giorni scorsi alla costruzione di impianti per generare elettricità da combustibile fossile potrebbe sembrare una risposta paradossale alle esigenze di crescita e sviluppo delle Filippine. Un arcipelago che negli ultimi anni ha visto il proprio Pil crescere a un ritmo intorno al 6-7 per cento ma che conta oltre 7.000 isole, con decine di migliaia di chilometri di coste periodicamente colpite da uragani, tempeste e mareggiate, che potrebbero letteralmente sprofondare sott’acqua nei prossimi decenni a causa dell’innalzamento del livello degli oceani.

Proprio per le loro caratteristiche geografiche e geofisiche e grazie all’estremo dinamismo della loro economia le Filippine, forse meglio di qualunque altro paese gravemente minacciato dai cambiamenti climatici, offrono un esempio dell’antinomia che molte nazioni in via di sviluppo devono affrontare tra la crescita e la tutela dell’ambiente. Un dilemma a cui la formula dello «sviluppo sostenibile» offre solo una soluzione parziale, indicando un modello di riferimento spesso lontano dalla realtà concreta e di difficile realizzazione.

Attualmente Manila è fortemente dipendente dal carbone: secondo i dati del dipartimento dell’Energia filippino il 42,5 per cento del suo fabbisogno di energia è soddisfatto da questo combustibile fossile. E la quota è destinata ad aumentare nel breve periodo, visto che l’obiettivo del governo è quello di duplicare la produzione energetica entro il 2030, per superare definitivamente il problema dei periodici black-out che affliggono alcune regioni del paese. Per questo molti dei progetti volti a incrementare il consumo del carbone del 25 per cento nel prossimo triennio sono in corso di approvazione.

Quello che le Filippine cercano, però, non è la crescita a ogni costo. A dimostrarlo sono gli ambiziosi piani del dipartimento dell’Energia, che prevedono che l’arcipelago ricalibri da qui al 2040 il proprio mix energetico, arrivando a produrre un terzo di quanto necessario dai combustibili fossili, un terzo dal gas naturale e un terzo dalle fonti rinnovabili. Non si tratta solo di parole scritte su un foglio di carta: già oggi Manila è il secondo produttore al mondo di energia geotermica dopo Washington, e anche sul versante idroelettrico i numeri sono impressionanti, tanto che le due fonti coprono il 30 per cento del suo fabbisogno energetico. Un risultato di rilievo, solo in parte ridimensionato dal grave ritardo sul fronte del solare e dei biocarburanti, fermi allo 0,9 per cento.

In questo quadro un altro elemento importante è rappresentato dalla decisione del governo filippino di iniziare a importare gas naturale liquefatto (Gnl) a partire dal prossimo anno. Oggi grazie al Gnl, meno inquinante del carbone, Manila produce il 15 per cento dell’energia che consuma, ma le riserve presenti nel giacimento di Malampaya, situato nella zona occidentale del Mare delle Filippine, si esauriranno entro il 2024. Le autorità sono alla ricerca di altri giacimenti; nell’immediato però l’opzione più ragionevole è quella di acquistarlo all’estero. L’australiana World Energy Corp Ltd prevede di attivare una centrale nell’arcipelago entro la fine del 2016, primo passo per la realizzazione di un hub per il trasferimento del gas liquefatto del valore complessivo stimato di 800 milioni di dollari nella provincia di Quezon, sull’isola settentrionale di Luzon. Parallelamente la filippina Manila Electric Co, nota anche come Meralco, è in trattative con la Osaka Gas Co Ltd per la costruzione di impianti del valore di 2 miliardi di dollari e la First Gen Corp ha in cantiere una centrale da un miliardo.

I progetti, dunque, non mancano. Il problema vero sono i soldi. Come ha sottolineato alla Reuters Reynaldo Umali, a capo della commissione per l’Energia della Camera dei rappresentanti filippina, importare gas richiede enormi investimenti in infrastrutture per il trasferimento e lo stoccaggio, cosa che rende il carbone infinitamente più conveniente nel breve periodo. Ancora più esplicito è stato il presidente Benigno Aquino III, che ai microfoni della Bbc ha spiegato che al momento la riduzione dell’uso del carbone in favore del gas, pur rappresentando una «scelta molto popolare» non è concretamente praticabile a causa dei costi eccessivi.

Alla Cop21 in corso a Parigi il capo di stato filippino è intervenuto evidenziando con forza che «la lotta ai cambiamenti climatici è una questione di sopravvivenza». Una posizione fatta propria dal blocco dei cosiddetti V20, il gruppo dei 20 paesi maggiormente minacciati dai cambiamenti del clima (dall’Afghanistan al Vietnam, passando per Costa Rica, Etiopia, Timor Est e Vanuatu) che si è costituito formalmente a ottobre, scegliendo come portavoce il presidente della Commissione filippina sul climate change, Emmanuel de Guzman. In questa veste Guzman ha spiegato alla comunità internazionale che un accordo che limiti l’aumento delle temperature a 2 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali, pur non considerato sufficiente dai V20, potrebbe essere accettato a patto che contenga un esplicito riferimento al limite più basso di 1,5 gradi, giudicato ottimale dal «suo» blocco.

Esternazioni, quelle di Aquino e Guzman, che mostrano come i politici filippini siano perfettamente consapevoli dei rischi che il loro paese, insieme a tanti altri, sta correndo, ma anche dell’inutilità di fare riferimento al concetto dello «sviluppo sostenibile» senza ancorarlo alla realtà, facendo i conti con gli enormi costi e sacrifici che, nell’immediato, la sua attuazione avrebbe per l’intera comunità internazionale e per gli Stati in via di sviluppo in particolare.

[Foto credit: catholicclimatemovement.global]

*Paolo Tosatti è laureato in Scienze politiche all’università “La Sapienza” di Roma, dove ha anche conseguito un master in Diritto internazionale, ha studiato giornalismo alla Fondazione internazionale Lelio Basso. Lavora come giornalista nel quotidiano Terra.