L’accordo «storico» raggiunto dalla comunità internazionale a Parigi non è altro che una dichiarazione d’intenti che stabilisce degli obblighi lasciando però ampio spazio alle autocertificazioni dei paesi interessati in materia di riduzione delle emissioni. Ed esclusa la Cina, che dal Cop21 esce vittoriosa a livello diplomatico, il resto del continente asiatico affronterà sfide che mettono a repentaglio la crescita. Un’analisi di Paolo Tosatti per China Files.Se l’aggettivo «storico» utilizzato da molte delle maggiori testate giornalistiche internazionali per commentare l’accordo sul clima raggiunto alla fine della Cop21 di Parigi sia stato usato a sproposito o a ragione lo si potrà dire solo tra qualche decina di anni. Quello che è certo è che l’intesa sottoscritta dai 196 membri dell’Unfccc, la Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici, stabilisce una nuova architettura globale per la progressiva riduzione delle emissioni inquinanti a partire dal 2020 e che l’intera comunità internazionale dovrà fare i conti con questo disegno, in misura maggiore o minore a seconda di come verrà data pratica attuazione agli obblighi e alle disposizioni in essa previste.
Tra i paesi maggiormente interessati a capire come le norme contenute nell’accordo di Parigi incideranno concretamente sul proprio modello di produzione e sviluppo vi sono senza dubbio quelli asiatici. L’Asia ospita infatti alcuni degli Stati più inquinanti del mondo. A cominciare dalla Cina, che secondo i dati della Netherlands environmental assessment agency, aggiornati al 2014, si posiziona al primo posto assoluto con oltre 10 miliardi di tonnellate di Co2 emesse ogni anno, quasi il doppio del secondo classificato, gli Stati Uniti, che a loro volta doppiano il terzo, ossia l’India. Seguono poi la Russia e il Giappone, altra potenza asiatica, come la Corea del Sud e l’Indonesia, che occupano rispettivamente l’ottavo e il tredicesimo posto della classifica.
(Nota: I dati prendono in considerazione solo le emissioni di diossido di carbonio prodotte dai combustibili fossili e dai processi di produzione del cemento, non quelle risultanti dai diversi metodi di sfruttamento del suolo e dalla silvicoltura. Anche le emissioni che derivano del trasporto marittimo e dall’uso dei distillati pesanti ottenibili dal petrolio non sono inclusi e questo può fare una notevole differenza per paesi di piccole dimensioni che ospitano scali portuali importanti. Si deve infine notare che la produzione di alcuni potenti gas serra, tra cui il metano, non è conteggiata.)
Pechino, Nuova Delhi e molti altri governi dei paesi in via di sviluppo, o considerati tali, si opponevano da anni a un accordo che imponesse regole troppo severe sulle emissioni inquinanti, visto che la loro produzione industriale è fortemente legata al carbone e che ogni limitazione alla generazione di diossido di carbonio si tradurrebbe necessariamente in un rallentamento della loro crescita economica, almeno nel breve periodo.
Per questo motivo a Parigi si è optato per un approccio diplomatico nel senso attribuito a questo aggettivo dal filosofo statunitense Will Durant, che sosteneva che metà dell’arte della diplomazia consiste nel non dire nulla, specialmente quando si sta parlando. E infatti l’accordo, da un punto di vista giuridico, può essere considerato in sostanza una dichiarazione di intenti, che stabilisce degli obblighi, affidando però a ogni paese la possibilità di autocertificare le emissioni prodotte e non prevedendo di fatto sistemi di controllo super partes.
Un risultato che può essere considerato un successo per la Cina, che durante i negoziati ha raggiunto due importanti obiettivi: evitare che fossero stabiliti obblighi realmente vincolanti sulle emissioni, mostrandosi al contempo agli occhi della comunità internazionale ammantata di nuove e più «verdi» intenzioni in relazione alle tematiche ambientali.
Subito dopo la firma dell’accordo Xie Zhenhua, rappresentante speciale di Pechino per i cambiamenti climatici ha sottolineato che «questa conferenza di Parigi rappresenta un punto di svolta nel processo di governante dei cambiamenti climatici. Il risultato avrà una reale rilevanza su tutti gli esseri umani e sul nostro futuro». Retorica dovuta e necessaria in un simile contesto, a cui però sono seguite alcune precisazioni, racchiuse in una frase di poche parole: «La Cina assumerà obblighi commisurati alle sue condizioni, al suo sviluppo e alle sue capacità». Che potrebbe benissimo essere tradotto con un più schietto «Faremo quanto riterremo necessario a nostro insindacabile giudizio».
Sarebbe sbagliato, però, pensare che Pechino voglia semplicemente ignorare l’accordo. Negli ultimi anni la Cina ha fatto una serie di concreti passi avanti nella lotta all’inquinamento e nell’investimento in fonti energetiche alternative, probabilmente non tanto per combattere i cambiamenti climatici quanto piuttosto per tutelare maggiormente la salute dei propri cittadini, ma in ogni caso con risultati tangibili. La leadership cinese sembra aver effettivamente compreso che ripulire i cieli delle città dalle polveri sottili e spingere il paese verso le rinnovabili non devono essere considerati solo freni alla crescita quanto strade obbligate da percorrere per mantenere la presa del partito comunista al potere tra il crescente malcontento pubblico e per evitare che la comunità internazionale continui ad additarla come il Grande Satana dell’inquinamento.
Così, se nel 2009, durante la conferenza di Copenhagen, l’allora premier Wen Jiabao non partecipò ai colloqui finali, inviando un semplice delegato che fu costretto più volte a uscire dalla stanza per chiedere al telefono istruzioni ai suoi superiori, sei anni dopo il presidente Xi Jinping ha dialogato costantemente e direttamente con Barack Obama, tanto che John Kerry, segretario di Stato Usa, ha lodato apertamente gli sforzi intrapresi dalla Cina per «costruire una partnership» con Washington. Da un punto di vista diplomatico non si poteva ottenere di più.
Molto diverso è invece l’atteggiamento assunto dall’India nei confronti dell’accordo di Parigi. All’indomani della firma moltissimi editoriali della stampa indiana, a cominciare da quelli apparsi sul The Times of India e The Hindu, hanno sottolineato senza usare mezzi termini che l’intesa avrà pesanti ripercussioni negative sull’economia, arrivando a criticare apertamente il primo ministro Narendra Modi, che in un tweet scritto al termine della conferenza ha definito l’accordo «una vittoria per la giustizia climatica».
Molti indiani si chiedono di quali giustizia stia parlando il capo del loro governo. Tra loro, a ben guardare, c’è anche il ministro dell’ambiente Prakash Javadekar, che in un’intervista al Times ha dichiarato che «i Paesi sviluppati hanno fatto molto meno di quanto avrebbero dovuto» per limitare le emissioni inquinanti, diversamente da Nuova Delhi, che ha compiuto invece sforzi enormi.
Effettivamente l’esecutivo indiano ha fissato l’ambizioso obiettivo di ottenere il 40 per cento dell’energia necessaria al paese da fonti rinnovabili entro il 2030, lanciando nelle scorse settimane un programma per incrementare la produzione di energia solare su tutto il territorio, con l’obiettivo di arrivare a produrre 100 gigawatt l’anno entro il 2022. Al momento però resta un dato estremamente concreto: la necessità per una nazione enorme, con un Pil che nel secondo semestre dell’anno è cresciuto del 7,4 per cento, ma con una parte rilevante della popolazione che continua a vivere sotto la soglia di povertà, di trovare una valida alternativa all’economico carbone per alimentare le proprie voraci industrie.
Non sono solo la Cina e l’India, comunque, a farsi domande. Anche gli altri paesi asiatici in via di sviluppo sono costantemente alla ricerca di un delicato equilibrio tra la crescita economica e la tutela dell’ambiente.
E mentre la conferenza di Parigi era ancora in corso l’Asian development bank ha pubblicato uno studio intitolato «Southeast Asia and the economics of global climate stabilization», in cui analizza le ripercussioni che gli impegni previsti dalla Cop21 avranno sulle economie di Indonesia, Malesia, Filippine, Thailandia e Vietnam, sottolineando che la riduzione delle emissioni richiederà a queste nazioni di riorientare rapidamente i propri modelli di produzione verso soluzioni a basso impiego di carbone.
La notizia positiva è che nel lungo periodo, secondo lo studio della banca, gli investimenti in fonti alternative produrrebbero in termini economici benefici undici volte superiori ai costi.
Peccato solo che, come spiegava Keynes, «l’unica certezza nel lungo periodo è che saremo tutti morti». Una battuta che, evidenziando la necessità improcrastinabile di contenere l’aumento della temperatura terrestre, la comunità scientifica internazionale ha trasformato in una tragica certezza.
[Foto credit: greenpeace.org]*Paolo Tosatti si è laureato in Scienza Politiche all’università "La Sapienza" di Roma, dove ha anche conseguito un master in Diritto Internazionale. Ha studiato giornalismo alla Fondazione internazionale Lelio Basso e successivamente è diventato giornalista professionista. Si occupa di Paesi asiatici dal 2005.