Una lettera aperta diffusa a inizio gennaio 43 uiguri detenuti in Thailandia da oltre dieci anni invocano l’aiuto della comunità internazionale per fermare la Thailandia, che secondo diverse fonti è intenzionata a rispedirli in Cina. I firmatari sono gli ultimi prigionieri uiguri di Suan Plu, il più grande centro per la detenzione degli immigrati irregolari della Thailandia; altri cinque stanno scontando la pena in un carcere di Bangkok per un tentativo di fuga, fallito nel 2019.
“Lanciamo un appello urgente a tutte le organizzazioni internazionali e ai paesi interessati ai diritti umani affinché intervengano immediatamente per salvarci da questo tragico destino prima che sia troppo tardi”. E’ quanto recita una lettera aperta diffusa a inizio gennaio da 43 uiguri detenuti in Thailandia da oltre dieci anni e che il governo di Paetongtarn Shinawatra sembra sul punto di restituire alla Cina. “Potremmo essere imprigionati, potremmo persino perdere la vita”, avvertono gli autori che, secondo attivisti della diaspora, sono in sciopero della fame da oltre sette giorni per convincere Bangkok a non cedere alla richiesta di Pechino. Le autorità thailandesi negano l’imminenza del rimpatrio.
Si è parlato tanto della repressione etnica nel Xinjiang, ma c’è un aspetto della questione uigura rimasto a lungo lontano dai riflettori dei media internazionali. Per molti, la tragedia continua anche una volta lasciata la Cina. Sono centinaia, forse migliaia, le persone appartenenti alla minoranza musulmana e turcofona ad essere state arrestate mentre cercavano di raggiungere luoghi considerati più “sicuri”: Medio Oriente, Turchia, Nord Africa, ed Europa. Un viaggio impervio che comincia nel Sud-Est asiatico, il cortile di Pechino. Quadrante regionale governato dalle democrazie più “imperfette” d’Asia: sistemi elettorali che fungono da paravento a regimi autoritari noti per le sistematiche violazioni dei diritti umani. E che, dipendendo economicamente dalla Cina, ne assecondano le richieste. Solo nell’ultimo mese Associated Press, New York Times e Washington Post hanno richiamato l’attenzione sul futuro incerto dei fuggiaschi uiguri, che il governo cinese vuole riportare a casa.
Registrazioni e chat ottenute dai media americani mostrano che l’8 gennaio i funzionari dell’immigrazione thailandese hanno chiesto ai detenuti uiguri di firmare documenti di deportazione volontaria. Il momento non è casuale. Quest’anno non solo ricorre il 50° anniversario delle relazioni diplomatiche tra Bangkok e Pechino. Con il passaggio del testimone da Joe Biden a Donald Trump, si ritiene che la reazione di Washington al rimpatrio sarà piuttosto tenue considerati i dossier più urgenti a cui deve fare fronte la Casa Bianca.
I 43 firmatari sono gli ultimi prigionieri uiguri di Suan Plu, il più grande centro per la detenzione degli immigrati irregolari della Thailandia; altri cinque stanno scontando la pena in un carcere di Bangkok per un tentativo di fuga, fallito nel 2019. A raccontare la loro storia è il New York Times, che negli ultimi due anni ha intervistato oltre trenta sopravvissuti al travagliato viaggio attraverso l’Indocina. Una rotta battuta da trafficanti di esseri umani e migranti provenienti dai paesi più poveri d’Asia.
A partire sono prevalentemente famiglie, soggetti fragili e male equipaggiati. Alcuni non ce l’hanno fatta, stroncati da malattie e dagli stenti. Altri sono stati traditi dai contrabbandieri. Nel 2014, oltre 300 uiguri in fuga dalla Cina sono stati trattenuti dalle autorità thailandesi vicino al confine con la Malesia, di cui due terzi erano donne e bambini. Numero, un anno più tardi, salito a 400.
Sono gli anni in cui la Cina viene scossa da una serie di episodi violenti: un suv si fa esplodere in piazza Tiananmen, 27 persone vengono accoltellate a Kunming. Entrambi gli episodi vengono attribuiti a “terroristi” uiguri. Ma per gli attivisti sono le politiche etniche repressive del regime ad aver radicalizzato parte della popolazione xinjianese. Nel settembre 2013 tre persone di etnia uigura vengono condannate a morte per omicidio, terrorismo, e incendio doloso da un tribunale dello Xinjiang in seguito a violente proteste antigovernative. Pechino risponde con il pugno di ferro: prima inasprisce la sorveglianza di massa nella regione, poi forma il sistema della rieducazione forzata. E serra i confini, chiedendo ai paesi amici tolleranza zero verso i “jihadisti” in fuga.
La Thailandia è particolarmente incline ad assecondare la richiesta. La legge locale non riconosce alcuno status di rifugiato o richiedente asilo; Bangkok non ha mai aderito alla convenzione sui rifugiati delle Nazioni Unite del 1951 né ha sottoscritto il protocollo del 1967. Tutti i richiedenti asilo sono considerati immigrati illegali, e pertanto soggetti all’Immigration Act, in vigore dal 1979, che concede alle autorità il potere di trattenere gli stranieri sorpresi a entrare nel paese in modo improprio. E il trattamento dei detenuti è regolato da linee guida vaghe che non pongono limiti alla durata del fermo.
Senza alcun preavviso, il 30 giugno 2015 circa 173 detenuti nel centro per immigrati di Sadao, a Bangkok, vengono trasferiti in Turchia, paese che, condividendo con la minoranza uigura lingua e cultura, tendenzialmente ne ha spesso preso le difese. Anche a costo di indispettire la Cina. È l’inizio di un esodo dai contorni poco chiari, che ha provocato la separazione di decine di famiglie. Mentre a donne e bambini veniva concesso di rifarsi una vita sotto la protezione di Ankara, gli altri detenuti venivano imbarcati in segreto su un volo per la Cina. La reale portata dei rimpatri resta tuttavia difficile da stimare. Se il governo thailandese sostiene che gli uiguri deportati nella Repubblica popolare siano 109, rapporti interni, fotografie e informazioni fornite dai parenti in Turchia, in realtà suggeriscono che il numero potrebbe essere più vicino a 150. Una discrepanza spiegabile – dicono gli attivisti – con il possibile decesso di alcuni dei detenuti mentre erano ancora in Thailandia. Non sembrano invece esserci dubbi sul coordinamento a lungo pianificato con Pechino. Documenti ottenuti dal New York Times da un ufficio di pubblica sicurezza dello Xinjiang mostrano che le autorità thailandesi hanno inviato al governo cinese foto segnaletiche di 306 adulti uiguri e 71 bambini nel tentativo di identificarli. Anche dopo l’offerta di accoglienza da parte di Ankara, funzionari di Pechino e Bangkok hanno tenuto riunioni segrete, culminate in un accordo preliminare “per rimpatriare 306 uiguri in Cina”. L’intenzione era quella di concludere una deportazione ben più ampia, denunciano i gruppi per la difesa dei diritti umani.
Sei settimane dopo i rimpatri, il 17 agosto 2015, una bomba esplode presso il Santuario di Erawan, un famoso sito turistico nel centro di Bangkok. Il bilancio è di venti morti e centoventicinque feriti. L’allora primo ministro Prayuth Chan-o-cha lo definisce “il peggior incidente mai accaduto in Thailandia”. Il caso, ancora irrisolto, vede come principali indiziati due uiguri: Bilal Mohammad e Mieraili Yusufu fronteggiano otto capi d’accusa, tra cui quella di omicidio premeditato. A distanza di dieci anni dai fatti, i due si trovano ancora in carcere. Una donna thailandese che era stata arrestata in relazione all’attentato è invece stata scagionata lo scorso anno per mancanza di prove. La pista seguita dalle autorità di Bangkok – quella del traffico di esseri umani – non ha mai convinto le organizzazioni per la difesa dei diritti umani, più inclini a considerare l’attacco un gesto dimostrativo degli uiguri in risposta alle deportazioni.
I legami della Thailandia con la Cina sono cresciuti notevolmente nel decennio intercorso dalla detenzione dei primi uiguri. Dal 2020, la Cina rappresenta il primo investitore straniero della Thailandia. I due paesi hanno anche approfondito i loro legami militari con esercitazioni congiunte e una dozzina di accordi sulla vendita di armi, compreso l’acquisto da parte della Reale marina militare thailandese di tre sottomarini cinesi per un miliardo di dollari. Secondo molteplici fonti consultate dal Washington Post, nonostante la mobilitazione dell’opposizione politica, Bangkok è sottoposto a notevoli pressioni da parte del governo cinese per quanto riguarda gli immigrati uiguri. E non è il solo. Centinaia di persone appartenenti alla minoranza sono state deportate attraverso canali extragiudiziali, in particolare da Cambogia, Asia centrale, Nord Africa e Medio Oriente. Le organizzazioni internazionali, invece di tutelare i ricercati, mantengono un approccio ambiguo. Talvolta connivente. Alcuni dei fuggiaschi sono stati arrestati su segnalazione dell’Interpol, che tra il 2016 e il 2018 è stata presieduta dal viceministro della pubblica sicurezza cinese Meng Hongwei, poi condannato al carcere per corruzione.
Nel maggio 2024, un’indagine pubblicata da The New Humanitarian ha scoperto che l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) per anni ha “respinto le richieste del governo thailandese” di assumere un ruolo più attivo nel facilitare il rilascio degli uiguri. L’inchiesta menziona un rapporto interno dell’UNHCR in cui veniva paventato il “rischio di ripercussioni negative sulle operazioni dell’UNHCR in Cina”, citando progetti valutati 7,7 milioni di dollari. Martedì i Relatori speciali delle Nazioni Unite sui diritti umani hanno sottolineato la necessità di assicurare ai detenuti “accesso alle procedure di asilo e assistenza umanitaria”, per via delle gravi condizioni di salute.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su GariwoMa]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.