4 maggio 1919.
Tra tutti gli anniversari di cui il 2009 si compone quello che più è rimasto in sordina, almeno sulla stampa occidentale, è quello relativo al Movimento del 4 Maggio.
Sono passati novant’anni da quella primavera. La Cina agli inizi del 1900, aveva visto cadere la sua ultima dinastia imperiale, i Qing 清
. Le potenze occidentali avevano da tempo fatto il loro ingresso nei porti commerciali delle città costiere cinesi. La reazione all’imperialismo occidentale era stata spesso violenta. Il culmine si ebbe nel 1919 con il Patto di Versailles, il quale sancì che la regione dello Shangdong, da tempo colonia tedesca, passasse nelle mani dei giapponesi, invece di ritornare alla Cina.
A quel punto la reazione cinese fu immediata e spontanea. Migliaia di studenti si riunirono per manifestare la propria rabbia nell’università più illustre della Cina, l’Università di Pechino. Si organizzarono volontariamente, fondarono comitati e gruppi che quotidianamente spiegavano le ragioni della protesta alla cittadinanza. L’umiliazione era forte, inconcepibile e soprattutto condivisa da molti strati della società cinese
Il boicottaggio di merci e prodotti giapponesi dilagò a macchia d’olio, quello che più colpisce fu la partecipazione: consumatori, commercianti e piccoli imprenditori cinesi decisero di contrastare la potenza imperialista. Il motivo nazionalista, il sentimento patriottico funzionarono da collante, ma la Cina degli anni venti faceva i conti con un fermento interno, con una élite intellettuale che spingeva il dibattito ben oltre il mero rifiuto per gli stranieri.
Il fervore era creato da una contraddizione: il nazionalismo e il patriottismo da una parte, la ricerca di una società cosmopolita e nuova dall’altra.
“Un proverbio dice: chi costruisce il suo carro dietro i cancelli chiusi non lo troverà poi adatto alle strade fuori dei cancelli, ma i costruttori dei carri di oggi non solo chiudono i loro cancelli ma vogliono addirittura usare i metodi contenuti nel capitolo sulla tecnologia dei Riti di Zhou per le autostrade dell’Europa e dell’America. E i danni saranno ben più gravi di quelli che provengono dal non adattarsi alle strade.”
Queste frasi vennero scritte nel 1919 sulla rivista “Nuova Gioventù” dal suo fondatore, Chen Duxiu 陈独秀, intellettuale e personaggio politico di primo piano dell’epoca.
Il movimento del 4 maggio venne portato avanti da persone di eccellenza, che vedevano la tradizione della cultura cinese come un peso insostenibile che tarpava qualsiasi tipo di progresso sociale. “Liberarsi della tradizione”, inneggiava Chen Duxiu. Nei suoi scritti esortava i giovani alla partecipazione del cambiamento della società. I giovani dovevano essere parte attiva e fulcro innovatore.
La società cinese si basava, e si basa in gran parte ancora oggi, sulla Tradizione Confuciana il cui fondamento è definito dai ruoli che l’essere umano deve possedere all’interno della società. La base era il ruolo dell’individuo e non la sua individualità.
Quello che veniva invece messo in evidenza durante il movimento del 4 maggio era l’individuo in sé stesso, nel processo di formazione di una società e di una nazione moderna, che liberatasi dal peso della Tradizione riesce a fare scelte nuove ed affrontare un mondo che travalica i confini del defunto impero cinese e che si confronta attivamente con tutto quello che c’è al di fuori.
“La funzione della gioventù è la stessa che ha una cellula fresca e vitale nel corpo umano. Nel processo del metabolismo ciò che è vecchio e consunto viene incessantemente eliminato per essere sostituito da ciò che è fresco e vivente…se il metabolismo funziona bene in un corpo umano, la persona sarà più sana, se invece le cellule vecchie e consunte si accumulano e riempiono il corpo, la persona morirà. Se il metabolismo funziona bene in una società, questa fiorirà, ma se gli elementi vecchi e consunti riempiono la società, questa cesserà di esistere”, continua ad affermare Chen Duxiu, il quale partecipò alla fondazione del Partito Comunista Cinese nel 1921, diventandone il primo segretario.
Il movimento del 4 maggio è stato portatore di un pluralismo di idee e di scambi di opinioni tra intellettuali, studenti e personaggi della politica. La presa di coscienza della necessaria trasformazione permeava tutti gli strati della popolazione cittadina. «La società cinese agli inizi degli anni venti, era profondamente diversa, per molte persone quasi inimmaginabile, c’era un fervore intellettuale enorme», afferma Ouyang Zhesheng, 欧阳哲生, professore di Storia Moderna all’Università di Pechino, «gli intellettuali cinesi riflettevano sulla loro identità guardando all’Europa, come fece ad esempio Chen Duxiu che seguì molto la Francia e le idee di Rousseau».
Il risultato di questa consapevolezza di rinnovamento combinata all’esigenza di modernità ha portato ad una vera e profonda “rivoluzione culturale”.
Hushi, 胡适, filosofo liberale dell’inizio del novecento si chiese «In quale lingua la Nuova Cina deve produrre i suoi scritti letterari futuri? La mia risposta è stata: la lingua classica, morta da tempo non potrà mai essere il mezzo di una letteratura viva di una nazione viva, la letteratura cinese deve essere scritta nella lingua viva della gente».
Questa lingua viva, è il baihua 白话, la lingua vernacolare. Il weyan 文言, strumento utilizzato per tutti i componimenti scritti, da quel momento in poi ha visto chinare il capo di fronte alla lingua comune, che come mezzo di scrittura si avvicinava di più al cittadino. Il wenyanera una lingua altolocata e con grandi difficoltà lessicali. Non che la lingua parlata non fosse complessa, ma sicuramente con l’abbandono del wenyan 文言 ci fu un grande passo avanti per un rinnovamento che avvicinasse il cittadino alla cultura. Questo periodo è stato definito da Hushi come il Rinascimento cinese, un momento storico fondamentale, non tanto per i risultati raggiunti, ma per le idee e i dibattiti disputati dagli intellettuali che componevano la società dell’epoca. Per quanto riguarda la letteratura, la profonda coscienza di cambiamento si tradusse in un rinnovamento concreto.