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L’Altra Asia – Qualcosa non va, in Thailandia

In Sud Est Asiatico by Francesco Mattogno

Il governo in Thailandia scricchiola, mentre l’ex premier Thaksin Shinawatra rischia di finire nuovamente in disgrazia. I risultati del summit ASEAN, tra attivismo economico e immobilismo politico, il massacro dei bambini e gli aggiornamenti dal fronte in Myanmar e le notizie da Filippine, Malaysia, Indonesia, Vietnam, Singapore, Cambogia, Bangladesh e Pakistan, insieme ai consigli di lettura. L’Altra Asia è una rubrica sui paesi meno raccontati del continente a cura di Francesco Mattogno (clicca qui per tutte le puntate)

Gli argomenti della puntata, nel dettaglio:

  • Thailandia – Le tensioni nella coalizione di governo, i problemi degli Shinawatra
  • ASEAN – I risultati del primo summit annuale
  • Myanmar – La giunta massacra la popolazione, il supporto della Cina al regime, la ritirata dei ribelli da Lashio, gli aggiornamenti dal fronte
  • Filippine – La sconfitta di Marcos alle elezioni, le domande sull’impeachment a Sara Duterte
  • Malaysia – Le spaccature interne al partito del premier Anwar Ibrahim
  • Indonesia – Un paese che scivola verso l’autoritarismo, l’attivismo di Prabowo in politica estera
  • Vietnam – La “nuova era” vietnamita sta cominciando
  • Singapore – Un primo ministro vittorioso (e prudente)
  • Cambogia – Chi difende l’ambiente viene picchiato e arrestato
  • Bangladesh – I problemi del governo ad interim: a quando le elezioni?
  • Pakistan – La guerra (sospesa) con l’India, l’espulsione degli afgani

Da qualche mese, in Thailandia, la prima ministra Paetongtarn Shinawatra e vari esponenti del suo esecutivo ci tengono a dire che va tutto bene, che la coalizione di governo è forte e non si scioglierà. Lo ha ribadito pochi giorni fa anche il padre di Paetongtarn, l’ex premier Thaksin Shinawatra, che abbracciando il vicepremier Anutin Charnvirakul ha assicurato che «il governo è unito e resterà in piedi fino alla fine del suo mandato». Una dichiarazione interessante, soprattutto pensando che Thaksin col governo non dovrebbe c’entrare nulla, non avendo alcun ruolo istituzionale.

La frequente necessità di smentire le “voci” che parlano delle crescenti tensioni tra i due principali partner della coalizione di governo, il Pheu Thai (PT) di Paetongtarn e il Bhumjaithai (BJT) di Anutin, nasconde una realtà evidente: di problemi tra PT e BJT ce ne sono, eccome.

Alleati sulla carta

Oltre agli scontri sulle riforme costituzionali, la questione più spinosa riguarda la proposta di legge del PT per legalizzare il gioco d’azzardo, pensata per risollevare l’economia thailandese. L’apertura dei casinò, nelle idee di chi sostiene le bozza, porterebbe nel paese almeno 3 miliardi di dollari di investimenti esteri e un aumento del numero di turisti tra il 5% e il 10% all’anno.

La legge è sul piatto da mesi, ma la sua approvazione continua a essere rimandata proprio per l’opposizione del BJT e di un altro partito minoritario della coalizione, il Prachachat Party, che si stanno facendo portavoce di una consistente frangia della popolazione scettica nei confronti della norma (osteggiata soprattutto all’interno delle comunità religiose).

Recentemente il Dipartimento per la medicina tradizionale e alternativa thai ha inoltre approvato tre nuove regolamentazioni per limitare il commercio di cannabis nel paese, che potrebbero entrare in vigore nelle prossime settimane. La proposta prevede di permettere la vendita di infiorescenze solo a scopo medico, castrando un mercato da miliardi di dollari e mettendo a repentaglio migliaia di posti di lavoro. Anutin era stato il principale promotore della maggiore liberalizzazione della cannabis, presentando nella scorsa legislatura la legge che – con vari vuoti normativi – portò alla legalizzazione del consumo ricreativo (ne avevamo parlato in questa puntata).

Con la cannabis il BJT si era guadagnato popolarità e una nutrita nicchia elettori, che ora potrebbero svanire. È possibile che il partito continuerà a opporsi a regolamentazioni troppo stringenti, come ha già fatto nell’ultimo anno e mezzo, ma il PT può vantare un diffuso sostegno popolare sulla questione, con anche le frange “progressiste” della popolazione favorevoli a maggiori controlli del settore. Anutin potrebbe forse essere costretto a cedere su questo punto, ma intanto lui e i partner minoritari della coalizione stanno cercando di sfruttare le difficoltà economiche del paese (di cui Paetongtarn è facile capro espiatorio) per ritagliarsi maggiore influenza decisionale nel governo, operando più come opportunisti che come alleati.

L’economia thai cresce a rilento da anni, martoriata dai colpi di stato e dal caos politico interno. Il turismo non riesce più a trainare la crescita e Bangkok ha più bisogno che mai di rafforzare settore manifatturiero ed export, tanto da spingere il governo a cancellare l’enorme programma di sussidi universali alla popolazione (cavallo di battaglia elettorale del PT) per spostare le risorse sul comparto produttivo. La tiepida risposta thailandese ai dazi annunciati e poi sospesi dagli Stati Uniti non ha quindi fatto piacere all’opinione pubblica, già irritata per la carente gestione delle varie emergenze ambientali (inondazioni e tifoni) e per il dilagare di corruzione e scandali.

Il PT aveva promesso di riportare la normalità dopo anni di giunte militari e governi guidati dall’esercito, ma non è successo, e lo stesso BJT è al centro di un’indagine perché sospettato di essersi guadagnato la sua enorme influenza al Senato attraverso la compravendita di voti. Poi c’è Thaksin.

Processi, favori e condanne

La corte suprema ha ordinato l’avvio di una nuova indagine per verificare se Thaksin abbia ricevuto un trattamento carcerario di favore mentre scontava il suo periodo di detenzione in ospedale piuttosto che in prigione. L’ex premier, in esilio dal 2008 dopo essere stato rimosso da un golpe militare, è tornato in Thailandia ad agosto del 2023 nello stesso giorno in cui si è insediato il primo governo di questa legislatura, guidato sempre dal PT (con premier Shretta Thavisin, poi estromesso dalla corte costituzionale).

Su Thaksin pendevano varie condanne per corruzione e altri reati, per un totale di 8 anni di pena, a seguito di accuse che sostiene essere state montate dall’esercito allo scopo di eliminarlo dalla vita politica thailandese. Era chiaro a tutti che il suo ritorno fosse legato all’accordo siglato tra il PT e i partiti dei militari per governare insieme, sotterrando l’ascia di guerra allo scopo comune di impedire un esecutivo guidato dal Move Forward, forza politica progressista intenzionata a ridurre l’influenza della monarchia nel paese.

Come parte della tregua, il re Maha Vajiralongkorn ha quindi ridotto la pena di Thaksin a 1 solo anno di reclusione, successivamente dimezzato a 6 mesi di carcere. L’ex premier, però, il carcere non l’ha mai visto. Appena arrivato in prigione ha lamentato dei problemi cardiaci e polmonari, venendo così trasferito in un ospedale di Bangkok dove ha trascorso l’intera durata della sua pena in una stanza privata, con tutti i confort del caso. Da subito le opposizioni hanno denunciato il trattamento di favore riservato a Thaksin, senza che questo portasse però a delle indagini approfondite sulla vicenda. Ma ora qualcosa è cambiato, e il 13 giugno l’ex primo ministro dovrà presentarsi in tribunale per difendersi.

Il fatto che questo succeda a oltre un anno di distanza dai fatti conferma l’indebolimento degli Shinawatra e del PT. L’accordo stipulato con l’establishment militare e monarchico era fragile fin dal principio, e c’è chi pensa che il “Deep State” thailandese voglia sfruttare il momento favorevole (dovuto anche allo scioglimento del Move Forward, diventato People’s Party) per rimettere Thaksin al suo posto.

L’ex premier aveva infatti promesso di ritirarsi dalla vita politica, salvo poi, una volta uscito e in piena salute (i miracoli della medicina thai), cominciare a vestire i panni del “burattinaio”. Secondo i critici, Thaksin starebbe guidando da dietro le quinte il governo di sua figlia Paetongtarn, che d’altronde fa poco per nasconderlo («Non è una cosa negativa per me ascoltare i suoi consigli, perché è una persona le cui conoscenze e capacità sono ampiamente riconosciute sia a livello nazionale che internazionale», ha detto la prima ministra a marzo mentre si difendeva da un voto di sfiducia in parlamento).

Su Thaksin pende anche un processo per lesa maestà, che comincerà a luglio, mentre il 22 maggio un tribunale ha deciso che sua sorella, l’ex premier Yingluck Shinawatra (anche lei estromessa da un golpe militare e in esilio dal 2017) dovrà pagare 305 milioni di dollari come risarcimento per il suo fallimentare piano di stoccaggio nazionale del riso, risalente a oltre dieci anni fa.

Mentre gli Shinawatra dicono che va tutto bene, dunque, le evidenze mostrano il contrario. Qualche giorno fa il ministro della Difesa Phumtham Wechayachai ha detto che c’è bisogno di «vigilanza costante» per proteggere la democrazia, perché il rischio di un nuovo colpo di stato è sempre dietro l’angolo. Il tempo dirà se il suo sarà stato solo un eccesso di pessimismo.

Altre notizie dalla Thailandia:

• La situazione nel sud del paese è tesa. Dall’inizio dell’anno si sono verificati decine scontri violenti che hanno coinvolto la polizia thailandese e il Barisan Revolusi Nasional (BRN), il principale gruppo separatista della regione. I colloqui di pace sono sospesi e all’orizzonte non si riesce a vedere la fine di questo conflitto ventennale, che troppo spesso causa vittime civili. Un articolo di Deutsche Welle con dati e contesto.

• Nei giorni scorsi la premier thai Paetongtarn Shinawatra ha incontrato i presidenti di Indonesia e Filippine, Ferdinand Marcos Jr e Prabowo Subianto. I resoconti dei colloqui qui e qui. Poi ha dovuto chiamare il primo ministro cambogiano Hun Manet per chiarire quanto successo in uno scontro a fuoco tra i due eserciti, al confine. Ne abbiamo parlato qui.

• A fine aprile il re Maha Vajiralongkorn ha visitato il Bhutan per il suo primo viaggio ufficiale all’estero da quando è seduto sul trono, cioè da otto anni. Una curiosità: è stato lui a pilotare l’aereo di Stato che l’ha portato nel paese, almeno durante l’atterraggio.

• La Thailandia è uno dei paesi asiatici in cui si sta registrando una grande ripresa del numero di contagi da Covid: ne parla qui il Nikkei.

ASEAN – ATTIVISMO ECONOMICO, IMMOBILISMO POLITICO

Il 26 e 27 maggio si è tenuto a Kuala Lumpur il primo dei due summit annuali dell’ASEAN, l’organizzazione che racchiude dieci dei paesi del Sud-Est asiatico, almeno per ora. Uno dei risultati più concreti del summit è che da ottobre gli Stati ASEAN diventeranno undici: dopo anni di attesa Timor-Leste si unirà al blocco, che accoglierà così il suo primo nuovo membro da 26 anni a questa parte (l’ultimo ingresso era stato della Cambogia nel 1999). Al di là dei soliti grandi temi sul tavolo (guerra civile in Myanmar e mar Cinese meridionale), quest’anno i paesi ASEAN hanno dovuto far fronte alla minaccia dei dazi americani che, se dovessero essere confermati, colpirebbero tutti gli Stati della regione piuttosto duramente.

I dazi “reciproci” ai paesi ASEAN minacciati dagli Stati Uniti (grafica: Nikkei Asia)

Ad aprile la Malaysia, presidente annuale del gruppo, si era indispettita per la decisione di Cambogia e Vietnam di trattare con Washington per canali bilaterali, venendo meno alla possibilità di agire in blocco e mostrarsi più forti dinnanzi alle richieste della Casa Bianca.

Il dissidio sembra essersi ricucito questa settimana. I paesi ASEAN hanno deciso di fare fronte comune per opporsi ai dazi del presidente americano Donald Trump e hanno concluso le trattative per un accordo che potenzierà il libero scambio regionale (ATIGA), riducendo i dazi rimanenti sui beni commerciati tra Stati membri e rimuovendo varie altre barriere non tariffarie. L’accordo sarà formalizzato a ottobre. Il 26 maggio è stata inoltre adottata la ASEAN Community Vision 2045, un piano che mira a rendere la regione la quarta economia globale entro due decenni, dietro solo a Stati Uniti, Cina e Unione Europea. Il programma prevede di potenziare ulteriormente il commercio regionale, così come il settore manifatturiero, e di aumentare l’utilizzo delle valute locali.

Da segnalare anche il primo vertice trilaterale tra ASEAN, Cina e Consiglio di Cooperazione del Golfo, che racchiude sei paesi del Golfo Persico. Nonostante la grande enfasi – soprattutto cinese – sul presunto significato geopolitico del summit, che evidenzierebbe l’isolamento americano e il rafforzamento della cooperazione Sud-Sud, non sono arrivati grandi risultati concreti. Due resoconti, qui e qui.

A un certo attivismo sul piano economico è seguito il solito immobilismo politico. Se sul mar Cinese meridionale non è stato deciso nulla, con un codice di condotta per la gestione delle controversie con la Cina fermo ormai da anni, il gruppo ha deciso di nominare un inviato permanente in Myanmar (cioè con un mandato che potrebbe essere di 3 anni, non più annuale) che possa facilitare il dialogo tra la giunta militare e la resistenza.

Ad aprile il premier malaysiano Anwar Ibrahim aveva parlato con entrambe le parti, esaltando un cessate il fuoco mai esistito, e più in generale la presidenza malaysiana sta insistendo sulla linea di normalizzazione dei rapporti col regime. Lo dimostra anche il comunicato finale sul Myanmar, dai toni meno duri rispetto al solito, in cui non si specifica che è la giunta ad attaccare i civili e dove si è passati dal «condannare fermamente» al «­denunciare» la mattanza in corso da oltre quattro anni.

MYANMAR – BAMBINI MASSACRATI, LA RITIRATA DEI RIBELLI DA LASHIO E IL FUTURO DELLA RESISTENZA

Gli ultimi mesi sono stati intensi, in Myanmar. Il terremoto nel centro del paese dello scorso 28 marzo, finito su tutti i media internazionali, ha causato più di 3.500 morti ufficiali (circa 5 mila per i più attendibili media birmani) e 200 mila sfollati, che si vanno ad aggiungere alle oltre 3,5 milioni di persone rimaste senza una casa per colpa della guerra. Numeri che si perdono nel silenzio di una comunità internazionale capace di indignarsi solo per qualche ora, prima di voltare pagina (come accade per altri conflitti dimenticati nel mondo e in modo evidente per il genocidio dei palestinesi). È successo di nuovo qualche settimana fa.

L’11 maggio il regime ha bombardato una scuola nel villaggio di Oe Htein Kwin, nella regione Sagaing, uccidendo 25 persone, tra cui 23 bambini, e ferendone più di 100. La notizia è finita sulle pagine anche dei giornali italiani e l’Unione Europea si è aggiunta al coro di indignazione, come se questo attacco avesse superato un’immaginaria linea rossa. È bene ricordare che la giunta militare lancia bombe e missili sulle aree civili da anni, uccidendo anche migliaia di bambini, e che nei giorni seguenti al massacro ha colpito un’altra scuola nel Sagaing (2 morti) e un’altra ancora nello Stato Chin (2 morti): sono più di 300 le scuole distrutte dal golpe del 2021, secondo i dati di DVB. Quello dell’11 maggio non è stato un crimine di guerra isolato, ma un’operazione di routine. La newsletter Burma Coup Resistance Notes ha pubblicato qui le foto dei bambini uccisi nell’attacco a Oe Htein Kwin: sono immagini forti, ma a volte serve vedere coi propri occhi e non fermarsi ai numeri.

Perché la giunta attacca le aree civili? Un estratto da un video-podcast sul tema dell’Irrawaddy (qui per la versione integrale):

Dal fronte. Lo sviluppo più importante degli ultimi mesi è la ritirata del Myanmar National Democratic Alliance Army (MNDAA) da Lashio, la città che la resistenza aveva conquistato lo scorso anno e che era sede del comando nord-orientale dell’esercito birmano. Proprio quella conquista aveva spinto la Cina, preoccupata dall’eccessiva avanzata dei ribelli, a fare pressioni sui gruppi etnici armati dello Stato Shan (affamando la popolazione) per fermarsi e riconsegnare i territori al regime. Dopo mesi di bombardamenti e fame, il MNDAA ha ceduto e ad aprile ha permesso alla giunta di riprendersi una città fondamentale dal punto di vista strategico e del morale.

Ora ci si chiede come evolveranno i rapporti tra il MNDAA, che continua a controllare il 20% circa del nord Shan, e il resto dei ribelli. Anche perché il MNDAA è parte della famosa Three Brotherhood Alliance – con Arakan Army (AA) e Ta’ang National Liberation Army (TNLA) – che a ottobre del 2023 ribaltò l’inerzia della guerra spostandola a favore dei ribelli. Per ora nello Stato Shan sembra prevalere un certo senso di tradimento e di sconforto, considerando anche le difficoltà del TNLA. Dopo il fallimento di due colloqui di pace con la giunta, mediati da Pechino, il gruppo ribelle è sotto assedio e il regime ha aumentato l’intensità dei bombardamenti nei territori Ta’ang. Il 9 maggio, per la prima volta da golpe, il presidente cinese Xi Jinping ha incontrato il leader della giunta Min Aung Hlaing: è il segnale che la Cina si sente più sicura riguardo la stabilità del regime, dopo gli ultimi sviluppi.

Se i ribelli restano un po’ sospesi nello Stato Shan, da settimane i Karen stanno avanzando senza sosta (nell’ultimo mese hanno conquistato tre basi militari al confine con la Thailandia), mentre le forze Chin stanno cercando di resistere alle recenti controffensive dell’esercito nei territori liberati. I Kachin hanno poi abbattuto due elicotteri della giunta (qui il video di uno dei due attacchi)

Le altre notizie dal Myanmar. La giunta ha confermato (per ora) che le elezioni-farsa si terranno a dicembre. Le forze di sicurezza indiane hanno catturato, torturato e ucciso 10 soldati della resistenza connessi al governo civile di unità nazionale (NUG). Non è ancora chiaro del tutto perché siano stati bersagliati: Rajeev Bhattacharyya del Diplomat ha scritto l’articolo più completo sul caso. Anche l’AA, con una decisione molto controversa, ha ordinato la leva obbligatoria, vietando alle persone in età da coscrizione di lasciare lo Stato Rakhine. Un ex generale è stato assassinato fuori casa sua, a Yangon: forse anche i vertici dell’esercito cominceranno a non sentirsi più così intoccabili.

LE ALTRE NOTIZIE

Filippine. Il presidente Ferdinand Marcos Jr è uscito con le ossa rotte dalle elezioni di metà mandato del 12 maggio (ne abbiamo parlato nella newsletter di China Files: qui per sapere come ottenerla) e ora chiede una tregua ai Duterte, rafforzati dal voto. Nelle prossime settimane dovrebbe cominciare il processo di impeachment al Senato a carico della sua vice, Sara Duterte, che ha bisogno di 9 voti contrari (su un totale di 24 senatori) per salvarsi: visto che dopo le elezioni è praticamente certa di avere dalla sua parte almeno 6 senatori, le sue chance di salvezza sono aumentate sensibilmente e c’è chi pensa che il processo possa essere cancellato. Si vedrà. Intanto Marcos ha iniziato a cambiare gran parte del suo governo e a concentrarsi sulle questioni economiche per riacquistare un po’ di popolarità, calata a picco a seguito della decisione di consegnare Rodrigo Duterte alla Corte Penale Internazionale, che lo processerà per i reati connessi alla “guerra alla droga”. Per approfondire il contesto, qui.

Malaysia. Il 23 maggio si sono tenute le elezioni interne al Partito della Giustizia Popolare (PKR), il partito del primo ministro Anwar Ibrahim, per eleggere il vicepresidente. Dopo settimane di polemiche e accuse di nepotismo, a ottenere la carica è stata la figlia di Anwar, Nurul Izzah, che ha sconfitto il ministro dell’Economia Rafizi Ramli. Ne è nato un caso politico che ha evidenziato le spaccature interne al PKR e i timori per l’accentramento del potere attorno alla famiglia del premier. Rafizi ha presentato le sue dimissioni, seguite da quelle del ministro delle Risorse naturali e della Sostenibilità ambientale, Nik Nazmi Nik Ahmad. Diventare vicepresidente del partito è di fatto il primo passo verso la candidatura a premier: ne segue che Nurul è diventata così l’erede politica di suo padre, sempre che la coalizione di governo sopravviva al prossimo test elettorale. Anwar sta perdendo consensi, soprattutto all’interno della comunità musulmana, e il timore che voglia costruirsi una dinastia politica potrebbe risultare difficile da digerire anche per i suoi sostenitori più fedeli, già delusi da un governo che ha mostrato più volte tendenze autoritarie.

Indonesia. Negli ultimi mesi in Indonesia sono state organizzate varie proteste contro il presidente Prabowo Subianto, guidate soprattutto dai movimenti studenteschi. La società civile teme che il paese stia prendendo una traiettoria anti-democratica e sempre più militarizzata, come dimostra la legge (passata a marzo) che dà ai militari molto più potere all’interno delle istituzioni civili. A questo si aggiungono le intimidazioni ripetute ai giornalisti e alcune proposte inquietanti, come quella di nominare l’ex dittatore Suharto “eroe nazionale”. Questa lenta ma progressiva discesa verso l’autoritarismo ha cominciato a concretizzarsi negli ultimi anni di mandato di Joko Widodo, predecessore di Prabowo: ne abbiamo parlato qui e qui. Qui invece un articolo di Asia Sentinel che riassume alcuni dei passaggi più significativi che fanno temere sia in corso una “militarizzazione” dell’Indonesia.

Politica estera. Come già mostrato nei primi mesi di mandato, Prabowo è molto attivo in politica estera e nelle ultime settimane ha rafforzato i legami diplomatici e commerciali con Thailandia, Australia, Vietnam, Cina e Francia.

Vietnam. Hanoi ha intenzione di dimezzare il numero delle province del paese, portandole da 63 a 34. Ciò permetterà al 60% delle province vietnamite di aver accesso al mare (contro il 44% attuale), dando a ognuna maggiori possibilità di sviluppo economico. Fa tutto parte del radicale rinnovamento nazionale in vista della “nuova era”, di cui abbiamo parlato qui. Intanto il governo ha proposto di abolire la pena di morte per 8 dei 18 reati che attualmente la prevedono (qui per i dettagli), mentre il ministero della Scienza e della Tecnologia ha bloccato l’accesso a Telegram nel paese.

Politica estera. Un approfondimento di Fulcrum sui calcoli strategici legati al viaggio del segretario del Partito Comunista del Vietnam, To Lam, in Eurasia a inizio maggio. Qui gli accordi firmati con la Francia durante la visita del presidente francese Emmanuel Macron.

Singapore. Anche a Singapore si è votato, a inizio maggio (ne abbiamo parlato sempre nella newsletter). Il voto ha rafforzato la posizione del primo ministro Lawrence Wong, che è riuscito a risollevare di qualche punto percentuale il supporto al suo Partito d’Azione Popolare (PAP). Wong ha nominato la sua nuova squadra di governo, all’insegna della prudenza. Le posizioni chiave sono rimaste appannaggio degli esponenti di spicco del PAP, mentre i volti più “giovani” sono finiti in ruoli marginali, almeno per il momento: il calcolo politico attento e meticoloso di Wong spiegato da Jom.

Cambogia. Il 16 maggio la polizia cambogiana ha arrestato il giornalista Ouk Mao, rilasciato qualche giorno dopo su cauzione. Mao denuncia da anni le operazioni di disboscamento illegale nel paese ed era già sopravvissuto a un pestaggio, a marzo. Come lui vengono picchiati e minacciati regolarmente giornalisti e attivisti: quello del disboscamento illegale e della protezione dell’ambiente sta diventando un altro tema molto scomodo per Phnom Penh. Il 17 aprile si ricordavano i 50 anni dal genocidio operato dai Khmer Rossi: come il regime sta sfruttando la memoria del genocidio e la storia commovente dell’artista cambogiano Arn Chorn-Pond, sopravvissuto ai campi di sterminio, qui e qui.

Bangladesh. Non si placano le proteste contro il governo ad interim di Muhammad Yunus, che ha minacciato di dare le dimissioni. Il premio Nobel per la pace, nominato premier dopo la rivoluzione che la scorsa estate ha rimosso dal potere l’ex prima ministra Sheikh Hasina (poi fuggita in India), non sta riuscendo a far passare una serie di riforme istituzionali che ritiene fondamentali per risollevare il paese. A inizio maggio il governo ha ordinato la sospensione del partito di Hasina, la Lega Awami, mentre sia il Partito Nazionalista del Bangladesh che l’esercito chiedono elezioni entro dicembre. Yunus preferirebbe aspettare giugno 2026. Due approfondimenti di Foreign Policy e del Diplomat.

Pakistan. Da qualche settimana sembra essere tornata la calma tra India e Pakistan, dopo i missili e i morti dei primi giorni di maggio (abbiamo parlato qui delle sofferenze della popolazione civile). Ma la situazione resta in evoluzione. Prima del caos al confine in Kashmir erano ricominciate le espulsioni di massa dei rifugiati afgani dal paese: un articolo di Al Jazeera.

LINK DALL’ALTRA ASIA

In Mongolia il governo rischia di cadere per le domande che ci si fanno attorno al reddito personale del primo ministro.

Come ha reagito il Sud-Est asiatico alla morte di Papa Francesco? Ne ha parlato la giornalista Erin Cook, qui.

La coalizione di sinistra del presidente Anura Kumara Dissanayake, in Sri Lanka, ha dominato anche nelle elezioni locali di inizio maggio.

In Nepal sempre più persone, deluse da una politica democratica instabile e legata a fragili matrimoni di convenienza, chiedono un ritorno della monarchia. Quanto c’è davvero di concreto in questo articolo di Deutsche Welle.

Asia Centrale. A marzo c’è stato un summit trilaterale storico tra Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan. Perché quello che succede in Turkmenistan (“la Corea del Nord dell’Asia Centrale”, si dice) dovrebbe interessarci: l’articolo di Catherin Putz del Diplomat.

A cura di Francesco Mattogno