Il Vietnam è alle porte di una nuova epoca, «l’era dell’ascesa nazionale», che al momento significa soprattutto tre cose: centralizzazione del potere, sviluppo tecnologico e repressione del dissenso. L’impeachment della vicepresidente Duterte nelle Filippine, come stanno andando i primi mesi di governo Prabowo in Indonesia, una precisazione sul Myanmar, il caso Najib Razak in Malaysia e le notizie da Thailandia, Cambogia, Pakistan e Bangladesh, insieme ai consigli di lettura. L’Altra Asia è una rubrica sui paesi meno raccontati del continente a cura di Francesco Mattogno (clicca qui per tutte le puntate)
Gli argomenti della puntata, nel dettaglio:
- Vietnam – La «nuova era» teorizzata da To Lam è alle porte, tra centralizzazione del potere, sviluppo tecnologico e repressione del dissenso
- Filippine – L’impeachment della vicepresidente Sara Duterte: cosa è successo e quali sono i prossimi passi
- Indonesia – Un primo resoconto sul governo Prabowo
- Myanmar – Il cessate il fuoco tra il MNDAA e la giunta militare, una precisazione sul NUG
- Malaysia – Il caso Najib Razak (ancora) e la presidenza ASEAN
- Thailandia – La visita della premier Paetongtarn Shinawatra in Cina, gli scricchiolii nella coalizione di governo
- Cambogia – Un omicidio a Bangkok e la sistematica repressione del dissenso
- Pakistan – Il PTI contro tutti
- Bangladesh – La pazienza nei confronti del governo ad interim sta finendo
Secondo il segretario generale del Partito Comunista del Vietnam (CPV), To Lam, il Vietnam sta per entrare «nell’era dell’ascesa nazionale», definita come un «nuovo punto di partenza storico» che trasformerà negli anni a venire il ruolo e la rilevanza del Vietnam all’interno dell’ordine internazionale. Ne aveva parlato per la prima volta davanti ai colleghi di partito lo scorso 13 agosto, dieci giorni dopo il suo insediamento alla segreteria del CPV, ripetendosi poi in discorsi pubblici, comunicati ufficiali e nell’ambito di vari incontri diplomatici.
Nella teoria del segretario generale – approvata a settembre dal Comitato Centrale del partito, che l’ha quindi resa una dottrina ufficiale – la storia moderna del Vietnam si può suddividere in tre periodi: l’era dell’indipendenza e del socialismo (1930-1975), l’era della riunificazione e delle riforme Doi Moi (1975-2025) e l’era dell’ascesa nazionale, appunto, che partirà con il 14° Congresso del CPV nel 2026 per poi terminare nel 2045.
Come scritto dall’analista Phan Xuan Dung su Fulcrum, la periodizzazione presentata da Lam supporta una narrazione di progressione lineare verso una maggiore forza e prosperità del Vietnam, che nel Novecento ha combattuto due guerre per liberarsi dal colonialismo occidentale prima di intraprendere un percorso di crescita continua. Oggi però, dice Lam riferendosi alle varie crisi internazionali e all’avanzamento delle nuove tecnologie, il mondo si trova in una fase di «cambiamenti che definiscono un’era», alla quale il Vietnam non deve farsi trovare impreparato.
Il leader del CPV (cioè l’uomo più potente del paese: dei “quattro pilastri” del potere in Vietnam avevamo parlato qui) ha quindi definito gli anni che vanno dal 2024 al 2030 come un «periodo di sprint» decisivo, che risulterà fondamentale per stabilire la forma del nuovo ordine internazionale. Non c’è tempo da perdere, insomma. Per questo negli ultimi mesi Hanoi ha iniziato a prendere varie decisioni politiche radicali che serviranno a plasmare la «nuova era», accelerando l’implementazione di molti progetti infrastrutturali rimasti in sospeso a volte per decenni (come la costruzione di ferrovie ad alta velocità o di nuove centrali nucleari) e, soprattutto, riformando gran parte del sistema burocratico del paese.
La riforma dell’apparato burocratico e lo sviluppo delle nuove tecnologie
L’enorme ristrutturazione burocratica voluta da Lam negli ultimi mesi ha portato alla chiusura di cinque ministeri e di altre agenzie e dipartimenti governativi, le cui responsabilità sono confluite all’interno di istituzioni e dicasteri già esistenti. Dopo anni di aggiustamenti graduali, l’apparato di polizia è stato ulteriormente centralizzato attraverso la rimozione dei dipartimenti a livello distrettuale, mentre la seconda rete televisiva del paese (la VTC) è stata chiusa lasciando a casa più di 800 impiegati nell’ambito di un più generale ridimensionamento del settore dell’informazione.
L’obiettivo ufficiale delle riforme è quello di ridurre la burocrazia e tagliare i costi, migliorando a conti fatti l’efficienza del governo. Dopo l’importante +7,09% registrato nel 2024, Hanoi si è data un ambizioso obiettivo di crescita di PIL per il 2025 tra l’8% e il 10%, con un più ampio target di crescita in doppia cifra per il periodo 2026-2030. Secondo gli esperti, come Alexander Vuving, che ne ha scritto sul Diplomat, la leadership vietnamita sa che per garantirsi una crescita di questo tipo l’economia dovrà essere trainata dal settore tecnologico e guidata da una pubblica amministrazione snella e competente.
A dicembre, per la prima volta dopo decenni in cui la questione era sempre stata affrontata in modo un po’ fumoso, il Politburo del CPV si è impegnato politicamente nel definire «la scienza, la tecnologia, l’innovazione e la trasformazione digitale» come i cardini dello sviluppo economico del paese. Contestualmente Lam, in qualità di segretario generale, è stato nominato a capo della Commissione direttiva centrale per lo sviluppo della scienza, della tecnologia, dell’innovazione e della trasformazione digitale, ed è stato deciso che il governo dovrà destinare a tale scopo almeno il 3% del budget annuale.
Negli ultimi anni, beneficiando degli scontri tecnologici e commerciali tra Pechino e Washington, il Vietnam si era già trasformato in una destinazione gradita dalle multinazionali tecnologiche (soprattutto americane) interessate a delocalizzare la produzione dalla Cina. Salvo rare eccezioni, però, la manifattura vietnamita nel settore delle nuove tecnologie si è quasi sempre limitata all’impiego di operai scarsamente qualificati, dimostrandosi poco avvezza all’innovazione (non è un segreto che nel paese manchino ingegneri, per esempio).
Lam sta provando a cambiare questo paradigma. E potrebbe riuscirci, plasmando il Vietnam secondo la sua visione, per un motivo su tutti: è il segretario del CPV più potente da decenni a questa parte. Rispetto al suo defunto predecessore Nguyen Phu Trong, leader di grande spessore ma indebolito dagli ultimi anni di malattia e vecchiaia, Lam può infatti godere dell’appoggio assoluto della fazione legata all’apparato di sicurezza del partito.
La centralizzazione del potere
Prima di diventare segretario (passando per un periodo ad interim da presidente) Lam è stato per anni il ministro della Sicurezza Pubblica incaricato di guidare la campagna anti-corruzione, che ha usato per farsi strada nel CPV, purgando nemici e avversari politici. Oggi, per opera di Lam, sei membri su quindici del Politburo del partito provengono dall’apparato di sicurezza, mentre lo stesso ministero della Sicurezza Pubblica ha preso in carico molte delle funzioni dei ministeri e dei dipartimenti appena tagliati dalla ristrutturazione burocratica. Ed è in questa centralizzazione del potere che risiede probabilmente l’altro obiettivo della dottrina di Lam sulla nuova era.
Presentare i prossimi anni come quelli decisivi per “l’ascesa” (vươn mình) del Vietnam è anche un modo per legittimare il suo mandato, facendo leva sul senso di urgenza per giustificare cambiamenti rapidi e radicali. In un momento storico spartiacque, Lam può dunque dipingersi come l’architetto di un cambiamento epocale, al quale è vietato opporsi. Negli ultimi anni la repressione nei confronti di attivisti, giornalisti e dissidenti – guidata da Lam, prima come ministro e ora come segretario – si è fatta più dura che in passato, specialmente su internet, e la chiusura di VTC mostra come anche i media di stato e l’informazione dovranno passare da canali più ristretti, unificati.
Al momento, comunque, la nuova era non ha portato cambiamenti riguardo la postura internazionale di Hanoi, che resta impostata sulla bamboo diplomacy di Trong. Il Vietnam incarna forse più degli altri l’equilibrismo diplomatico della regione, essendo in grado di mantenere ottimi rapporti contemporaneamente con Russia, Cina e Stati Uniti (anche se la nuova amministrazione Trump non gradisce il pesante deficit commerciale con Hanoi). La leadership vietnamita riesce di fatto a dialogare senza problemi sia con le democrazie liberali che con i paesi autoritari.
È interessante però notare come molta della retorica di Lam, anche per “naturali” convergenze ideologiche, coincida con quella dell’omologo cinese Xi Jinping. Durante una chiamata tra i due avvenuta lo scorso 16 gennaio, Lam ha detto che in vista del 14° Congresso del prossimo anno «il Vietnam imparerà il più possibile dall’esperienza di sviluppo della Cina, in particolare dalla nuova innovazione teorica e pratica del Pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era». Che forse, in Vietnam, è già cominciata.
FILIPPINE – L’IMPEACHMENT DELLA VICEPRESIDENTE DUTERTE
Il 5 febbraio (con 240 voti a favore su un totale di 306 deputati) la camera dei rappresentanti delle Filippine ha messo sotto stato d’accusa la vicepresidente Sara Duterte. Su Duterte erano state aperte un paio di mesi fa tre procedure d’impeachment legate all’utilizzo sconsiderato dei fondi pubblici destinati al dipartimento dell’Istruzione, di cui è stata segretaria fino all’estate scorsa, e alla minacce di morte che ha rivolto al presidente Ferdinand Marcos Jr e alla sua famiglia (ne avevamo parlato qui). Come riportato da Rappler, il voto favorevole della camera equivale di fatto a un’incriminazione. Il passo successivo è dunque l’apertura di un processo interno al senato, che dovrà valutare se rimuovere o meno la vicepresidente dall’incarico. Non è così facile: per condannarla servirebbe il voto favorevole di almeno due terzi dei 24 senatori e, allo stato attuale delle cose, Duterte può contare quasi certamente sul sostegno di quattro componenti della camera alta (tra loro c’è anche la sorella del presidente, Imee Marcos, amica di Duterte).
Questi calcoli potrebbero però risultare inutili visto che le sedute ordinarie delle assemblee legislative sono state sospese a causa dell’inizio della campagna elettorale per le elezioni di metà mandato, in programma a maggio, con le quali si rinnoverà la metà del senato (oltre a tutta la camera bassa e a migliaia di posizioni a livello locale). Il presidente del senato, Francis Escudero, ha escluso che il procedimento possa iniziare prima di giugno, cioè prima dell’insediamento della nuova camera alta. Anche se va ricordato che il presidente Marcos ha il potere di convocare il senato per una sessione speciale. Intanto la vicepresidente dovrà valutare se rischiare il processo o se decidere di dimettersi. Nel caso in cui venisse condannata, infatti, a Duterte verrebbe anche impedito di ricoprire nuove cariche pubbliche, una condizione che evidentemente affosserebbe la sua corsa alla presidenza nel 2028. Dello scontro dinastico tra i Duterte e i Marcos avevamo parlato qui e qui (e nell’e-book “In Cina e Asia 2025“).
In breve. Nell’ultimo mese ci sono stati nuovi scontri e nuove tensioni tra Manila e Pechino nel mar Cinese meridionale, ma anche nuovi dialoghi e intese, seppur circoscritte. A fine gennaio sono poi state arrestate cinque persone accusate di essere spie cinesi. Le Filippine hanno anche svolto le prime esercitazioni militari quadrilaterali nell’area: oltre ai “soliti” Stati Uniti e Giappone, il 5 febbraio ha partecipato all’addestramento congiunto anche la marina australiana. A gennaio l’inflazione dei beni alimentari ha costretto Manila a dichiarare l’emergenza e a distribuire le proprie scorte di riso. Il tutto mentre il 63% dei filippini si percepisce come “povero” (è il dato più alto dal 2003).
INDONESIA – QUANTI MILIARDI SERVONO PER FAR DIMENTICARE AL PAESE I TUOI CRIMINI?
A gennaio il presidente indonesiano Prabowo Subianto ha superato i primi cento giorni di governo, classica soglia giornalistica che, anche nel suo caso, è servita a tirare le prime somme sull’operato della nuova amministrazione. Stando ai sondaggi, le cose gli stanno andando bene. Oltre l’80% degli indonesiani sostiene il presidente, ha rilevato Kompas, e il merito va senza dubbio alla rapida implementazione di alcune delle più importanti promesse elettorali dell’ex generale. Una su tutte: l’erogazione di pranzi gratuiti per studenti e donne incinta, o in fase di allattamento. Ci sono però dei punti interrogativi. Quello dei pranzi gratuiti – che a pieno regime conta di arrivare a oltre 80 milioni di persone – è un programma dissanguante per le casse statali, tanto che il costo di un singolo pasto è stato ridotto di una ventina di centesimi rispetto alle previsioni iniziali, con polemiche riguardo la qualità e la quantità dei pasti. Lo stesso governo ritiene di dover impegnare 6 miliardi di dollari in più del previsto per poterlo sostenere.
Prabowo intende poi fornire 200 milioni di visite mediche gratuite, vuole costruire case, ospedali, scuole, sviluppare decine di migliaia di ettari di terreni agricoli, impegnarsi per la proseguire realizzazione della nuova capitale Nusantara e… tagliare le tasse. L’ex generale sembra non voler mai scontentare nessuno e desiderare soprattutto una cosa: essere amato. Per farlo sta tagliando alcune spese ritenute superflue (come la manutenzione di ponti e strade) e indebitando il paese, che non è chiaro quanto possa reggere. Nel 2024 il PIL indonesiano è cresciuto del 5,03%, un dato in linea con le previsioni ma tiepido in confronto all’obiettivo dell’8% che Prabowo vorrebbe raggiungere entro la fine del suo mandato, nel 2029. Alle controversie sulla gestione dell’economia si aggiungono quelle sullo stato della democrazia indonesiana: qui il Jakarta Post ha raccolto alcune delle uscite più infelici di questo suo primo periodo al governo.
In breve. La corte costituzionale indonesiana ha annullato l’efficacia della norma che prevedeva che i partiti o le coalizioni potessero nominare un proprio candidato alle elezioni presidenziali solo se, alla tornata elettorale precedente, avessero ottenuto il 20% dei seggi in parlamento o il 25% del voto popolare. Il parlamento dovrà ora decidere se abolire o abbassare la soglia, ma intanto la decisione del tribunale cancella una disposizione che favoriva i grandi partiti (o le grandi coalizioni, come quella di Prabowo) a scapito di un vero diritto di scelta. In queste prime settimane dell’anno Prabowo ha viaggiato molto, come al solito, incontrando tra gli altri i premier indiano Narendra Modi, giapponese Shigeru Ishiba e malaysiano Anwar Ibrahim. Con tutti i loro paesi è stata rafforzata la cooperazione anche in materia di difesa e sicurezza. L’Indonesia è poi entrata nei BRICS: motivazioni e conseguenze della scelta, qui. L’Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP), una delle più grandi organizzazioni mondiali di giornalismo investigativo, ha incluso l’ex presidente Joko Widodo tra i leader più corrotti del 2024. La decisione non ha colto di sorpresa nessuno.
MYANMAR – IL POCO CHIARO CESSATE IL FUOCO TRA IL MNDAA E LA GIUNTA (E UNA PRECISAZIONE)
La notizia più importante di queste prime settimane del 2025 in Myanmar è stata senza dubbio il cessate il fuoco, siglato il 16 gennaio, tra il Myanmar National Democratic Alliance Army (MNDAA) e la giunta militare. L’accordo è stato mediato dalla Cina, che per mesi ha affamato le zone liberate dai ribelli alla frontiera col Myanmar per aumentare la pressione sul MNDAA e sugli altri gruppi etnici armati che stanno combattendo contro il regime, il tutto mentre l’esercito birmano bombardava città e villaggi. Una volta firmato il cessate il fuoco, Pechino ha riaperto il commercio transfrontaliero. Dell’accordo, che prevede uno stop delle offensive del MNDAA, non è chiaro un aspetto fondamentale: i ribelli dovranno o non dovranno ritirarsi da Lashio? In assenza di spiegazioni ufficiali, le voci che arrivano sono contrastanti. Sembra però che il MNDAA – che fin qui ha sempre smentito – dovrà lasciare la città entro la fine di giugno. Lashio era la sede del comando nordorientale dell’esercito birmano e per questo la sua conquista rientra tra le maggiori vittorie ottenute dalla resistenza in questi quattro anni di guerra civile.
Sono infatti passati quattro anni dal colpo di stato del 1° febbraio 2021. Il Myanmar non si è ancora liberato dei suoi tiranni, ma l’inerzia del conflitto continua a pendere dalla parte dei ribelli, che avanzano regolarmente negli stati Rakhine (l’Arakan Army ha praticamente raggiunto il capoluogo Sittwe), Chin, Mon, Kachin, Shan e nella regione di Ayeyarwady. Secondo un report della BBC la giunta avrebbe il pieno controllo di una porzione molto piccola di territorio, il 21%, mentre il 42% sarebbe nelle mani delle forze di resistenza, con la restante parte che rimane contesa. Serve però una precisazione.
I dati presentati dalla BBC sono realistici e in linea sia con le notizie che arrivano dal fronte, sia con alcuni degli stessi dati del regime che, ad esempio, ha dichiarato di essere riuscito a completare il censimento in solamente 145 delle 330 città birmane. Considerando le varie testimonianze che riportano come in molte di quelle 145 città il censimento sia stato approssimativo, se non inventato, è plausibile pensare che Naypyidaw abbiamo meno controllo di quello che dichiara. Anche il governo democratico di unità nazionale (NUG) si intesta però qualcosa che non ha.
Sulla base di questi dati della BBC, così come su quelli di varie organizzazioni internazionali, il NUG sembra aver lasciato intendere di stare controllando quel 42% di Myanmar in mano alle forze di resistenza. Non è proprio così. Gran parte di quel territorio è stato conquistato ed è amministrato direttamente dai gruppi etnici armati: questi sono quasi sempre alleati del NUG, ma hanno anche legittimi interessi privati e non rispondono al governo di unità nazionale. Il NUG è poi connesso alle Forze di Difesa Popolare (PDF), che a loro volta non sono un vero e proprio esercito che risponde a un comando unificato. Con PDF si intende un insieme di milizie diverse che, pur battendosi per la stessa causa, possono decidere se affiliarsi o meno al NUG. Tanto che nei primi giorni di febbraio si è verificata una spaccatura tra una paio di comandi PDF e il governo di unità nazionale. Diverse delle stesse PDF, così come alcuni gruppi etnici armati, sono poi accusate di violenze in alcune zone liberate. Difficile pensare che il NUG voglia avere qualcosa a che fare con questo.
I rappresentanti del NUG stanno cercando di costruirsi un maggior grado di legittimità, soprattutto internazionale, in un contesto nel quale la Cina e gran parte dei paesi ASEAN stanno colpevolmente isolando il governo democratico per spostarsi sulla linea della giunta militare, ritenuta (sbagliando) l’unica forza politica in grado di stabilizzare il Myanmar. L’esercito birmano, e per estensione questa giunta, è la più evidente e grande ragione per cui la Birmania non abbia mai trovato davvero la pace dal giorno della sua indipendenza, nel 1948. Intanto il NUG, che amministra comunque varie città, ha annunciato che sposterà il suo quartier generale nella regione del Sagaing, aumentando la propria presenza all’interno del territorio bimano. È una buona notizia: forse non si potrà più parlare di “governo democratico in esilio”.
In breve:
• La giunta sta perdendo e per questo ha iniziato ad attivarsi per coscrivere anche le donne single tra i 18 e i 27 anni (nonostante le smentite di Naypyidaw). La possibilità era ben nota fin dall’attuazione della legge sulla leva obbligatoria dello scorso anno, ma nel corso del 2024 l’esercito aveva reclutato solo gli uomini.
• Ormai l’energia elettrica, già carente nelle zone periferiche del paese, viene razionata anche a Yangon e Naypyidaw. Un altro segnale delle difficoltà del regime.
• L’intensità degli attacchi aerei della giunta sui civili è aumentata vistosamente negli ultimi mesi. A gennaio i bombardamenti hanno ucciso almeno 170 civili in oltre 40 città. Si è parlato molto (anche in Italia) di quello di inizio anno nel Rakhine, che ha fatto almeno 42 morti. Ma la giunta bombarda tutti i giorni, in tutte le zone civili fuori dal suo controllo, fin dall’inizio del conflitto. Non è una strategia bellica, vista la conclamata inutilità che ha dimostrato in questi anni il bombardamento delle aree civili: è terrorismo.
MALAYSIA – NAJIB NON MOLLA, E POI C’È LA PRESIDENZA ASEAN
Il caso Najib Razak è esploso di nuovo. Il 6 gennaio una corte d’appello ha concesso all’ex premier malaysiano ed ex leader dell’UMNO, condannato nel 2020 a 12 anni per frode nell’enorme scandalo del fondo sovrano 1MDB, la possibilità di richiedere un ordine speciale al re per scontare il resto della sua pena agli arresti domiciliari. La pena di Najib era già stata dimezzata lo scorso anno dal precedente monarca malaysiano, il sultano Abdullah Ahmad Shah di Pahang (in Malaysia esiste un sistema di rotazione del sovrano, che cambia ogni 5 anni alternandosi tra i vari sultani del paese: oggi il re è il sultano Ibrahim Iskandar di Johor). Nonostante la sacralità del ruolo della corona nel paese, fuori dalla cerchia dei suoi sostenitori Najib è ormai molto impopolare e già all’epoca la decisione aveva fatto discutere.
Ora però si è aggiunto un altro tassello ad aumentare l’indignazione popolare: dopo mesi di smentite, a seguito della sentenza della corte è uscito fuori che, in uno dei suoi ultimi atti da monarca, il sultano Abdullah aveva anche prodotto un decreto che consentiva a Najib di andare ai domiciliari. Il premier Anwar Ibrahim nega di esserne mai stato al corrente, ma intanto il governo ha iniziato a silenziare le discussioni sul caso: al famoso giornalista di Malaysiakini, RK Anand, è stato confiscato il computer a seguito di una puntata del suo podcast sul tema. La decisione conferma il graduale processo di limitazione della libertà di espressione avviato sotto Anwar, che ha nell’UMNO un alleato imprescindibile di governo.
Politica estera. La Malaysia ha assunto la presidenza dell’ASEAN per il 2025. Ci sono già stati i primi incontri e le prime dichiarazioni, e c’è un generale ottimismo sul fatto che quello di Kuala Lumpur possa essere un mandato importante su vari fronti. Quelli più rilevanti restano le controversie con Pechino sul mar Cinese meridionale e la guerra in Myanmar. Il nuovo inviato speciale dell’ASEAN per il Myanmar, Othman Hashim, ha già visitato Naypyidaw (6-8 febbraio), come ormai richiede la consuetudine, ma ha poi incontrato anche dei rappresentanti della resistenza birmana a Bangkok. Sicuramente la Malaysia ha i mezzi per essere più incisiva del Laos, ma è difficile dire oggi cosa verrà fuori da questo anno malaysiano. Si vedrà.
LE ALTRE NOTIZIE
• Thailandia. Il 23 gennaio è diventato ufficialmente legale il matrimonio egualitario in Thailandia. China Files ha dedicato alla questione un articolo dell’e-book “In Cina e Asia 2025” (di Vittoria Mazzieri) e una newsletter (di Beatrice Scali): per sapere come riceverli, clicca qui. Il People’s Party, successore del Move Forward, ha vinto la sua prima elezione locale (1 su 17, ma è un buon risultato). Proprio le elezioni per i PAO – delle sorta di governatori provinciali – hanno messo in competizione in varie zone del paese i due principali alleati della coalizione di governo, il Pheu Thai e il Bhumjaithai. Si parla da tempo di divisioni interne e di possibili rimpasti, ma per ora il governo (e un “portavoce” speciale) continua a smentire.
Politica estera. Anche la Thailandia è diventata partner dei BRICS. Intanto la prima ministra Paetongtarn Shinawatra si è recata in Cina per incontrare il presidente cinese Xi Jinping, il 6 febbraio, nell’ambito di una visita più ampia: qualche giorno prima la premier aveva deciso di interrompere l’afflusso di elettricità verso varie città birmane di confine che si ritiene ospitino degli enormi centri per le truffe online. La mossa è volta soprattutto a rilanciare il turismo cinese in Thailandia, frenato dalle notizie dei rapimenti al confine col Myanmar (qui per approfondire). Il 9 febbraio sono poi rientrati nel paese i cinque ostaggi thailandesi rapiti da Hamas nell’attacco del 7 ottobre 2023.
• Cambogia. Lim Kimya, ex parlamentare dell’opposizione cambogiana, è stato ucciso da un sicario a Bangkok. Se l’esecutore è stato trovato, mancano ancora i mandanti, che probabilmente siedono nelle sale del potere di Phnom Penh. Si ritiene che almeno uno di loro sia collegato a un consigliere dell’ex premier Hun Sen, padre dell’attuale primo ministro Hun Manet. Continua intanto anche la repressione interna di dissidenti, attivisti, giornalisti e politici dell’opposizione. A gennaio Sun Chanthy, presidente del Partito del Potere Nazionale, è stato condannato a due anni per un post pubblicato su Facebook. Il 6 febbraio al giornalista che si occupa di ambiente Gerry Flynn è stato invece impedito di rientrare in Cambogia, dove vive, a seguito di un breve periodo trascorso in Thailandia. Flynn denuncia da tempo la deforestazione illegale in Cambogia: qui un suo articolo.
• Pakistan. Il 17 gennaio l’ex premier pakistano Imran Khan e sua moglie Bushra Bibi sono stati condannati ad altri 14 anni di carcere per un nuovo caso di corruzione. Qualche giorno dopo, il 31, il PTI (il partito di Khan) ha interrotto i colloqui che servivano a tentare una riconciliazione con i partiti di governo, promettendo nuove proteste (arrivate lo scorso weekend). Politica estera. Tra dicembre e gennaio c’è stato uno scambio di missili tra Pakistan e Afghanistan, che ha risposto agli attacchi di Islamabad: due articoli (qui e qui) per capire cosa è successo. Dal settembre 2023 il Pakistan ha inoltre espulso 823 mila afgani, quasi sempre rifugiati, dice l’ONU. Il presidente pakistano Asif Ali Zardari è andato in Cina per parlare con Xi Jinping: qui un resoconto.
• Bangladesh. La pazienza nei confronti del governo ad interim in Bangladesh sta finendo, scrive Michael Kugelman su Foreign Policy: «L’economia vacilla (…) e l’opinione pubblica dispone di informazioni limitate sul processo di riforme del governo provvisorio, che non è chiaro quali obiettivi abbia fissato (…) La maggior parte dei bangladesi ha accolto con favore la nuova amministrazione lo scorso agosto, ma non si tratta di un governo eletto. Più a lungo rimarrà al potere, maggiori saranno le pressioni per indire le elezioni». E c’è qualcuno che vorrebbe andare subito al voto, cioè «la comunità imprenditoriale e i militari», scrive Kugelman. Qui l’articolo completo.
LINK DALL’ALTRA ASIA
A Singapore si stanno facendo passi avanti verso le elezioni, che forse potrebbero arrivare in anticipo rispetto al previsto. Una lettera contro la pena di morte che dice più di mille articoli, qui.
Il sultano del Brunei Hassanal Bolkiah ha incontrato il presidente cinese Xi Jinping a Pechino, il 6 febbraio. Il piccolo sultanato, membro dell’ASEAN, è uno degli stati che ha delle controversie aperte con Pechino sul mar Cinese meridionale: durante i colloqui si è parlato anche di quello.
In gran parte del Sud-Est asiatico (e non solo) non si respira a causa dell’aria inquinata, come accade sempre in questo periodo dell’anno. Ne abbiamo parlato anche nella newsletter del 9 febbraio, a cura di Sabrina Moles (qui per sapere come riceverla). Nel frattempo, la sospensione dei finanziamenti internazionali degli Stati Uniti, voluta dalla nuova amministrazione di Donald Trump, sta mettendo a repentaglio varie agenzie umanitarie e portali di informazione nella regione.
Anche il presidente srilankese Anura Kumara Dissanayake ha incontrato Xi Jinping: qui un resoconto. Lo Sri Lanka si è portato a casa varie promesse di investimenti, soprattutto nell’ambito della Belt and Road Initiative cinese.
A cura di Francesco Mattogno