Nepal monarchia

L’Altra Asia – Anche il Nepal ha i suoi nostalgici

In Asia Meridionale, Sud Est Asiatico by Francesco Mattogno

I nostalgici della monarchia iniziano a essere un problema per l’establishment, in Nepal, anche perché l’ultimo re del paese è tra loro. Poi le tensioni tra Thailandia e Cambogia, il Senato che fa come vuole nelle Filippine, gli aggiornamenti dal Myanmar e le altre notizie da Mongolia, Bangladesh e Pakistan, insieme ai consigli di lettura. L’Altra Asia è una rubrica sui paesi meno raccontati del continente a cura di Francesco Mattogno (clicca qui per tutte le puntate)

Gli argomenti della puntata, nel dettaglio:

  • Nepal – I nostalgici della monarchia e le loro manifestazioni, sempre più grandi
  • Thailandia-Cambogia – Proseguono le tensioni lungo il confine
  • Filippine – Il Senato non vuole iniziare il processo di impeachment a carico di Sara Duterte
  • Myanmar – Il cessate il fuoco non c’è, le elezioni “libere ed eque” nemmeno. Poi gli aggiornamenti dal fronte e non solo
  • Mongolia – Nominato il nuovo primo ministro
  • Bangladesh – Hasina sotto processo (ma in esilio), una data per le elezioni
  • Pakistan – Il supporto all’Iran e quella linea sottile in politica estera
  • Link dall’Altra Asia – I consigli di lettura su Indonesia, Vietnam, Laos, Malaysia, Singapore, Sud-Est asiatico e Asia Centrale

Lo scorso 18 febbraio, tramite un video rivolto ai suoi sostenitori, l’ex re nepalese Gyanendra Shah ha parlato in termini molto duri dello stato della democrazia in Nepal, criticando l’instabilità politica  provocata dai principali partiti del paese e denunciando le gravi difficoltà economiche in cui si trova buona parte della popolazione. Poi, in un modo a dire il vero un po’ criptico, ha di fatto annunciato la sua volontà di rivestire un ruolo attivo in politica. «È giunto il tempo di proteggere la nostra nazione, di mantenere l’unità nazionale e battersi per la prosperità», ha detto, «chiediamo a tutti i nepalesi di unirsi a noi in questo sforzo». Il suo appello non è caduto nel vuoto.

Il 9 marzo circa 10 mila persone lo hanno accolto all’Aeroporto Internazionale Tribhuvan di Kathmandu, intonando slogan come «Lunga vita al re» e «Vogliamo la monarchia». Gyanendra era di ritorno nella capitale, dove abita come un comune cittadino, dopo aver trascorso tre mesi nell’ovest del paese visitando vari luoghi di culto della comunità indù. Se le sue parole avevano già irritato parecchio il governo, una tale dimostrazione di supporto al vecchio monarca ha aggravato le tensioni, sfociate poi nelle violenze delle settimane successive. 

Il 28 marzo i partiti pro-monarchici, guidati dal Partito Nazionale Democratico (RPP), hanno organizzato a Kathmandu una manifestazione per chiedere il ritorno della monarchia e protestare contro il governo, repressa duramente dalle forze di polizia. Gli agenti hanno impedito che la folla marciasse verso il parlamento usando manganelli, cannoni ad acqua e lacrimogeni, sparando inoltre verso i manifestanti con proiettili veri, non di gomma (qui un video esplicito di una donna ferita da un colpo d’arma da fuoco). 

Il bilancio finale è stato di 3 morti, oltre 120 feriti e più di 130 persone arrestate, mentre governo e RPP si sono rimpallati la responsabilità delle violenze. Nonostante la polizia nepalese non sia nuova all’utilizzo spropositato della forza, alle frange più estreme dei manifestanti vengono imputati incendi dolosi e saccheggi. Tra i morti figura un giornalista televisivo locale, Suresh Rajak, arso vivo in casa sua, mentre c’è un video che mostra uno dei leader delle proteste (il controverso imprenditore Durga Prasai) sfondare un blocco della polizia a bordo di un suv, quasi investendo gli agenti.

Nelle settimane successive si sono verificate varie tensioni interne al fronte realista, che però ha retto e si è unito per una nuova manifestazione a Kathmandu il 29 maggio, nel “Giorno della Repubblica”. Questa volta il corteo ha sfilato senza incidenti, ma con le classiche discrepanze nei numeri tra organizzatori e “questura”: il governo ha detto che i manifestanti non erano più di 7 mila, mentre il RPP ha parlato di 30 mila persone presenti e ha promesso di poterne portare «facilmente» 100 mila. «Se milioni di persone scendono in strada a protestare pacificamente, questa repubblica cadrà in un giorno», ha dichiarato il leader del RPP Rajendra Lingden.

Come si è arrivati a questo punto?

Secondo i dati della Banca di Sviluppo Asiatico, il 20,3% della popolazione nepalese vive al di sotto della soglia di povertà e gran parte delle famiglie dipende dalle rimesse. Tantissimi nepalesi emigrano ogni anno alla ricerca di lavoro nel Sud-Est asiatico o in Asia sud-occidentale, mentre a centinaia si sono arruolati come mercenari per l’esercito russo in Ucraina. Il PIL del paese cresce, ma non a ritmi così sostenuti (+4,6% nel 2024), e alla frustrazione economica si aggiunge la perenne instabilità politica.

Il Nepal ha cambiato 14 governi negli ultimi 17 anni, cioè da quando il paese si è trasformato da una monarchia costituzionale a una repubblica federale, nel 2008. Sebbene sia sempre scivoloso generalizzare, si può dire che all’interno della popolazione si stia facendo sempre più largo un certo senso di disillusione nei confronti del sistema di governo multipartitico. In questi decenni tutti i partiti (seppur con piattaforme ideologiche sulla carta piuttosto marcate: comunisti, maoisti, socialisti, liberali e così via) si sono alleati con chiunque, stringendo o rompendo alleanze sulla base di convenienze politiche spesso personali.

L’insoddisfazione dell’opinione pubblica per i governi di ogni colore è dunque la base sulla quale l’ex re Gyanendra e i partiti pro-monarchici (come il RPP, che detiene solo 14 seggi alla camera) stanno cercando di capitalizzare per acquistare rilevanza nelle stanze del potere di Kathmandu, ma c’è di più. Molta della retorica a sostegno del ritorno della monarchia verte su una questione identitaria: l’induismo

Nostalgia canaglia

Per chi critica il passaggio alla repubblica, il processo di secolarizzazione avrebbe compromesso l’identità nazionale nepalese, provocando divisioni interne al paese e favorendo la diffusione di altre religioni a discapito di quella indù. Il re, in Nepal, era visto come l’incarnazione di Vishnu, una delle principali divinità dell’induismo. Per questo, come ha scritto Ishika Thapa su Kalam Weekly, non esiste uno scenario in cui la monarchia possa essere restaurata senza che il Nepal torni a essere uno stato indù, che è poi la condizione necessaria per riportare quella «unità nazionale» di cui ha parlato Gyanendra nel messaggio ai suoi sostenitori.

La data scelta dall’ultimo monarca del paese per chiedere il supporto dei realisti non è stata casuale. Gyanendra ha criticato il sistema democratico proprio alla vigilia del “Giorno della democrazia”, con cui in Nepal si festeggia, ogni 19 febbraio, il primo (breve) passaggio a un sistema democratico nel paese, risalente al 1951. Nel 1960 il re Mahendra (padre di Gyanendra) ristabilì la monarchia assoluta, che poi resse fino alla nuova trasformazione del sistema politico del paese in una monarchia costituzionale nel 1990.

Gli anni successivi furono turbolenti. Nel 1996 i maoisti iniziarono una guerra civile allo scopo – tra gli altri – di rovesciare la monarchia, e nel 2001 gran parte della famiglia reale venne assassinata dal principe ereditario Dipendra (che poi si sparò) in circostanze ancora poco chiare. Morì anche il re Birendra, fratello di Gyanendra, che salì così al trono nel 2001 governando per i primi anni in modo cerimoniale, prima di sciogliere il parlamento, incarcerare i leader politici e ristabilire il potere assoluto del monarca nel 2005, con l’aggravarsi della guerra civile. 

La fine del conflitto e le proteste della popolazione lo costrinsero a rinunciare al potere 16 mesi dopo, nel 2006. Due anni più tardi il parlamento votò la fine della monarchia costituzionale e il passaggio alla repubblica. È con questa eredità che devono fare i conti i nepalesi, ma non tutti, specialmente tra i più giovani, hanno piena consapevolezza di cosa significasse vivere sotto un re. I realisti sostengono che gran parte delle infrastrutture e dei progetti più importanti per lo sviluppo del Nepal siano stati opera di governi monarchici, e in parte è così, ma molti dimenticano che gran parte di questi non erano pensate per le persone comuni, che non avevano i mezzi economici per usufruire dei pochi servizi del paese.

Il Nepal oggi, rispetto al 1990, sta molto meglio in quasi ogni parametro (dalla mortalità infantile al livello di alfabetizzazione), compreso il reddito pro-capite. Forse è normale non accorgersene, quando si vive ancora in povertà. «Parlando con i giovani monarchici», ha scritto Ishika Thapa, «emerge il loro sincero desiderio di migliorare il paese (…) Tuttavia, molti dei loro discorsi trascurano la realtà oggettiva e considerano la monarchia come un passato idealizzato in cui non esistevano i mali di oggi. Le loro opinioni derivano da una disinformazione collettiva sulla vita e sulla politica durante la monarchia». E il richiamo all’identità indù aggiunge fascino a una narrazione già distorta.

Se è complicato pensare che il Nepal possa davvero tornare a un sistema monarchico, la mobilitazione di piazza rimane un grosso problema per l’establishment politico del paese: a prescindere dai realisti, il sentimento di rabbia e delusione verso la classe politica è ormai palpabile. Gli ultimi scandali per corruzione non promettono di migliorare le cose.

THAILANDIA-CAMBOGIA – LE TENSIONI NON ACCENNANO A FERMARSI

I rapporti tra Thailandia e Cambogia sono molto tesi, da settimane. Come vi avevamo raccontato qui, il 28 maggio si è verificato uno scontro a fuoco tra un piccolo gruppo di soldati dei due eserciti a Chong Bok, una zona di confine tra la provincia cambogiana di Preah Vihear e quella thailandese di Ubon Ratchathani. Nella sparatoria è morto un soldato cambogiano.

(La mappa qui sopra dà ovviamente delle indicazioni approssimative. Per vedere meglio quali sono i principali siti contesi, la newsletter Kouprey ha pubblicato qui delle mappe molto più precise)

Le versioni su quello che è successo sono agli antipodi. Bangkok sostiene che i soldati cambogiani abbiano oltrepassato il confine e che, una volta invitati a fare marcia indietro, abbiano iniziato a sparare. Phnom Penh afferma che siano stati i soldati thai a iniziare la sparatoria e che il territorio in cui si muovevano le sue truppe fosse sempre stato nella parte cambogiana del confine. Non essendoci accordo su quale sia la frontiera, è complicato comprendere quale delle due versioni si avvicini maggiormente alla verità. Ma la storia è molto più lunga di così.

Le controversie territoriali al confine tra Thailandia e Cambogia sono un affare vecchio di oltre un secolo. Nel 1904 la Thailandia, all’epoca Siam, firmò un trattato per la demarcazione delle frontiere con la Francia, che allora controllava il territorio dell’attuale Cambogia come parte delle sue colonie d’Indocina. Il trattato definiva più che altro delle linee guida da rispettare al momento della demarcazione dei confini da parte di una commissione bilaterale, e mancava di chiarezza su alcuni territori ben specifici proprio nella zona di Chong Bok e in altre aree limitrofe. 

Tre anni dopo, nel 1907, quell’accordo venne di fatto superato da un altro trattato che dava ai francesi (e quindi alla Cambogia) più territori di quelli previsti nel 1904, apparentemente con il benestare thailandese. A partire dagli anni Trenta però la Thailandia iniziò a opporsi al contenuto del trattato, che tuttora afferma di non aver mai riconosciuto, e nel 1954 (subito dopo l’indipendenza della Cambogia dalla Francia) occupò il tempio di Preah Vihear, a circa 50 km dal luogo degli scontri del 28 maggio. Nel 1962 una sentenza della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) riconobbe il territorio alla Cambogia, decisione poi ribadita nel 2013 a seguito di altri scontri risalenti al 2011. La sentenza della corte si limitava però espressamente a quella singola area.

Nel corso degli anni Bangkok e Phnom Penh hanno risolto 13 dispute territoriali attraverso delle commissioni congiunte create appositamente, ma almeno altre 11 aree al confine tra i due paesi restano contese (senza contare le controversie sul Golfo della Thailandia). Le tensioni erano ricominciate a montare a febbraio, dopo che alcuni soldati cambogiani avevano intonato delle canzoni patriottiche davanti al tempio di Ta Moan Thom, per poi arrivare agli scontri di maggio.

Cosa succede adesso?

Nonostante le pressioni della Thailandia per risolvere la questione solamente attraverso canali bilaterali, la Cambogia ha presentato una petizione alla ICJ per spingere il tribunale a decidere a chi appartenga la sovranità su quattro siti: i templi Ta Moan Thom, Ta Moan Toch e Ta Krabei e l’area dove è avvenuta la sparatoria del 28 maggio. Sembra evidente che Phnom Penh abbia deciso di muoversi così perché sicura della propria posizione, mentre Bangkok ha ribadito più volte di non riconoscere l’autorità della ICJ sulla questione.

In queste settimane i due eserciti si sono ammassati al confine, prima di tornare alle posizioni antecedenti agli scontri, ma in generale i rapporti tra le due capitali non accennano a normalizzarsi. Visti i legami degli Shinawatra con il premier cambogiano Hun Manet e soprattutto con suo padre Hun Sen (ex premier e oggi presidente del Senato), la prima ministra thai Paetongtarn Shinawatra, molto indebolita dalla crisi politica interna, ha dovuto alzare i toni e fare leva sul nazionalismo, già usato come una clava da Hun Sen (che da giorni ne sta sparando una dietro l’altra).

Dopo la propaganda, si è passati alle cose concrete. Il 17 giugno la Cambogia ha deciso di impedire il transito dei prodotti agricoli thailandesi nel paese in ritorsione alla decisione di Bangkok di chiudere alcuni dei valichi di frontiera. La misura di Phnom Penh segue, tra le altre, la decisione di tagliare la connessione internet ed elettrica con la Thailandia, di ridurre la durata massima del visto concesso ai cittadini thailandesi (misura poi reciprocata da Bangkok) e di bloccare i programmi televisivi thai in Cambogia. Un incontro di due giorni tra le parti, organizzato il 14 e 15 giugno, non ha prodotto alcun risultato concreto, e un altro colloquio che era in programma nelle prossime settimane è stato rimandato.

Né la Cambogia né la Thailandia sembrano disposte a cedere. Come spesso accade da queste parti, è sia per una questione di orgoglio nazionale, sia perché entrambi i governi hanno bisogno di cavalcare populismo e nazionalismo per guadagnare consensi. Tra i due esecutivi – vista la repressione sistematica dell’opposizione in Cambogia – quello che ne ha più bisogno sta a Bangkok.

Altre notizie dalla Cambogia:

• La Cambogia potrebbe firmare presto una partnership strategica con la Francia.

• Una buona notizia: Phnom Penh ha sottoscritto un trattato internazionale con cui si impegna a rispettare la biodiversità marina. Ne ha scritto James Borton qui.

Altre notizie dalla Thailandia:

• Non si smette di parlare di rimpasti di governo, sfiducia e crollo della coalizione. Ormai il Pheu Thai sembra essere chiaramente in crisi identitaria.

• La corte suprema si riunirà a luglio per la seconda udienza del caso a carico dell’ex premier Thaksin Shinawatra, padre di Paetongtarn, accusato di aver falsificato le proprie cartelle cliniche per ricevere un trattamento di favore e trascorrere la sua pena in ospedale piuttosto che in carcere (qui per i dettagli). 

FILIPPINE – MA QUINDI QUESTO IMPEACHMENT?

Il Senato filippino sta facendo di tutto per impedire lo svolgimento del processo di impeachment alla vicepresidente Sara Duterte. Il procedimento sarebbe dovuto cominciare il 2 giugno, ma lo speaker della camera alta Francis Escudero ha tentato di rinviare le pratiche con una serie di escamotage, riuscendoci parzialmente. Secondo la teoria di Escudero, il Senato non sarebbe obbligato a seguire le indicazioni della Camera e a continuare il processo di impeachment (ipotesi smentita da diversi costituzionalisti filippini), soprattutto se questo fosse frutto del volere di una Camera non più in carica, come in questo caso. 

Le elezioni di metà mandato del 12 maggio hanno infatti rinnovato tutta la Camera dei Deputati filippina, insieme a metà del Senato. Ne risulta che il mandato dei deputati che hanno votato a favore dell’impeachment di Duterte lo scorso febbraio sia ormai scaduto, dice Escudero, che a febbraio si era però battuto per impedire l’avvio del processo durante la sospensione delle assemblee dovuta alla campagna elettorale, sostenendo che se ne sarebbe riparlato dopo le elezioni. La realtà è che, vista la forza mostrata dal clan Duterte in queste elezioni, nessun senatore ha voglia di prendere una posizione netta a favore o contro la vicepresidente. «Un senatore filippino ha riassunto la prudenza politica in questo modo: “Meno chiacchiere, meno errori. Niente chiacchiere, niente errori”», ha scritto Manuel L. Quezon III su Asia Sentinel. Una massima valida soprattutto per chi, come Escudero, stava cercando la riconferma a speaker del Senato.

Escudero ha poi dovuto cedere e l’11 giugno ha giurato come presidente del tribunale che porterà avanti il processo di impeachment (cioè il Senato, appunto). Subito dopo, e col favore delle tenebre, il Senato ha votato (18 favorevoli, 5 contrari) per chiedere alla Camera di specificare nuovamente le accuse a Duterte e le condizioni per lo svolgimento del processo. Un’altra mossa volta a prendere tempo. Intanto la vicepresidente non vede quale sia il problema di diffondere video generati con l’intelligenza artificiale di persone – finte, quindi – che si oppongono al suo impeachment, visualizzati da milioni di filippini.

In breve. Nonostante le premesse incoraggianti, la legge per l’innalzamento del salario minimo è implosa per una questione di tempistiche. Se ne riparlerà nei prossimi mesi. Le POGO’s sono state ufficialmente bandite dal paese. Le Filippine stanno intensificando la cooperazione di Difesa marittima con Stati Uniti e Giappone.

MYANMAR – CESSATE IL FUOCO, ELEZIONI LIBERE E ALTRE STORIE FANTASTICHE

In Myanmar non c’è nessun cessate il fuoco. E non c’è mai stato. A partire dal terremoto dello scorso 28 marzo la giunta militare, al potere dal golpe del 1° febbraio 2021, ha più volte dichiarato di aver istituito un cessate il fuoco nelle aree colpite dal sisma. Non è così, come abbiamo visto anche nell’ultima puntata, ed è importante sottolinearlo perché diversi attori internazionali (su tutti l’ASEAN) stanno cercando di far passare questi comunicati farlocchi, uniti ai cessate il fuoco unilaterali dichiarati a scopi umanitari dai gruppi etnici armati situati nelle zone terremotate, come un segnale di dialogo e de-escalation. Il premier malaysiano e presidente annuale dell’ASEAN, Anwar Ibrahim, si è anche lasciato andare a una dichiarazione avventurosa: «Se le elezioni [annunciate dal regime a dicembre] saranno libere ed eque, saremo pronti ad accettarle». 

Fa tutto parte del tentativo di normalizzazione del regime militare, su spinta non solo cinese. Molti dei vicini del Myanmar sono stanchi della guerra e vogliono tornare a discutere con Naypyidaw a qualunque condizione, anche perché hanno storici rapporti con l’esercito birmano. Eppure la giunta continua a bombardare i civili e ad ammazzare bambini: in un attacco a una scuola Karen, in cui lo scorso 10 giugno morti 3 studenti e un insegnante, l’esercito potrebbe aver usato delle bombe a grappolo. Intanto il regime dice che a dicembre si voterà in 267 delle 330 municipalità del paese, mentre il leader della giunta, capo dell’esercito e presidente del Myanmar, Mun Aung Hlaing, sogna di farsi eleggere presidente per vie “legali”. 

In breve. Il TNLA resiste, ma continua a essere in difficoltà. Ora si dice (il TNLA smentisce) che potrebbe aver concordato con la giunta di ritirarsi da Nawnghkio, città strategica nella rotta commerciale Mandalay-Lashio-Muse che arriva fino in Cina. E infatti è proprio Pechino a fare le maggiori pressioni, soprattutto sui gruppi etnici che si muovono lungo le rotte della Belt and Road Initiative in Myanmar, usando un po’ l’approccio di “bastone e carota”. Il MNDAA invece potrebbe lasciare al regime anche Hseni. Nel 2025 l’economia, complice il terremoto, sarà un disastro, dice la Banca Mondiale. C’è anche il Myanmar tra i paesi i cui cittadini non potranno viaggiare negli Stati Uniti, per ordine di Donald Trump. Anche l’ILO denuncia la giunta. Il caso delle miniere cinesi nello Stato Shan (supervisionate dall’UWSA) che inquinano i fiumi in Thailandia è già piuttosto grosso.

Il 19 giugno Aung San Suu Kyi, la storica leader per la democrazia, in carcere dal colpo di stato del 2021, compie 80 anni. Di lei non si hanno notizie da anni. Si sa solo che è in una prigione forse di Yangon o Naypyidaw, non ai domiciliari come il regime ha lasciato credere più volte, e che ha rifiutato dei trattamenti di favore (come l’aria condizionata). Il 18 giugno Tin Htet Paing e Lorcan Lovett hanno pubblicato sul Guardian un video esclusivo di Suu Kyi durante un’udienza, risalente al 2022.

Dal fronte. L’avanzata dei Karen spiegata qui, i ribelli hanno abbattuto un aereo dell’esercito, qui invece tutti gli altri aggiornamenti.

LE ALTRE NOTIZIE

Mongolia. Il 13 giugno il parlamento della Mongolia ha confermato la nomina a primo ministro di Zandanshatar Gambojav del Partito Popolare Mongolo (MPP), supportato da 108 dei 117 deputati presenti. Zandanshatar ha preso il posto di Oyun-Erdene Luvsannamsrai, sfiduciato a inizio giugno dopo settimane di proteste per le spese di lusso di cui era accusata la sua famiglia. Il nuovo premier dovrà vedersela con un’economia in difficoltà (+2,4% nel primo trimestre del 2025 contro il +7,9% dello stesso periodo del 2024) e con lo scrutinio dell’opinione pubblica: il fatto stesso che Zandanshatar, ex speaker della Camera, non sia stato eletto come deputato alle ultime elezioni del 2024 potrebbe minare la sua legittimità. Il primo ministro ha detto che punterà a far passare delle riforme costituzionali in linea con il programma dell’ultimo governo e a migliorare la redistribuzione della ricchezza nel paese. Zandanshatar viene visto dagli osservatori come una figura di transizione, ma ci potrebbero essere sorprese.

Bangladesh. Il 1° giugno il Tribunale per i Crimini Internazionali, una corte bangladese specializzata in reati di guerra e umanitari, ha aperto un processo a carico dell’ex prima ministra Sheikh Hasina, accusata di crimini contro l’umanità per la violenta repressione delle proteste che lo scorso anno portarono al suo esilio. Hasina è ancora in India, dove ha fatto perdere le sue tracce. Intanto il primo ministro ad interim Muhammad Yunus ha detto che le prossime elezioni si terranno ad aprile 2026: potrebbe parteciparvi anche il Jamaat-e-Islami, il più grande partito islamico del paese che Hasina aveva tenuto per anni fuori dalla vita politica. Yunus è poi stato nel Regno Unito per incontrare altri esponenti della politica bangladese esiliati da Hasina.

Pakistan. Islamabad ha fornito il suo sostegno all’Iran nella guerra contro Israele, ma ha smentito di essere pronta a bombardare Israele con l’atomica se Tel Aviv dovesse fare lo stesso con Teheran. La diplomazia pakistana viaggia da sempre su in filo sottile: dal 15 al 19 giugno il generale dell’esercito Asim Munir è negli Stati Uniti per dei colloqui di alto livello sulla Difesa, mentre a inizio giugno Islamabad ha deciso di innalzare il livello delle relazioni diplomatiche con l’Afghanistan nominando un suo ambasciatore a Kabul. Il Pakistan ha anche aumentato di quasi il 20% il budget da destinare alla Difesa, dopo gli scontri con l’India di inizio maggio.

LINK DALL’ALTRA ASIA

Il Vietnam, preoccupato dal calo demografico, ha abbandonato la “politica dei due figli”. Intanto l’Assemblea Nazionale ha confermato l’enorme piano di ristrutturazione territoriale, e l’economia cresce bene nonostante la minaccia dei dazi americani. Hanoi è diventata anche partner dei BRICS.

Il governo indonesiano vuole riscrivere la storia per cancellare i crimini del presidente Prabowo Subianto e non solo: l’articolo del Nikkei Asia. Nel frattempo Prabowo, dopo una tappa a Singapore, è atteso in Russia da Vladimir Putin.

L’economia del Laos è in ripresa, mentre cambia buona parte della squadra di governo.

Un’analisi di Fulcrum sul futuro del PKR in Malaysia, dopo il recente tentativo del premier Anwar Ibrahim di costruirsi una dinastia politica. La libertà di espressione nel paese non è messa bene.

Sud-Est asiatico. L’ONU dice che il traffico di droga nel Triangolo d’Oro continua a crescere (avete letto Asia Criminale?). Una panoramica sulle dinastie politiche della regione.

Asia Centrale. L’Italia ha rafforzato le sue relazioni con Kazakistan e Uzbekistan. Poi questa è la settimana del vertice tra la Cina e i paesi dell’area: il presidente cinese Xi Jinping ha in programma di incontrare tutti i leader regionali.