Lady Gaga è stata bandita dalla Cina. Ad aver scatenato il pugno di ferro di Pechino, l’incontro tra la pop star e il Dalai Lama avvenuto domenica a Indianapolis, in occasione della United States Conference of Mayors. Malgrado i due abbiano evitato di affrontare questioni politiche, concentrandosi sulla generosità verso i poveri e la salute mentale, il meeting non è passato inosservato oltre la Muraglia, dove governanti e pancia del Paese si sono allineati nel condannare l’ingiuria.
Secondo quanto riportava martedì il quotidiano di Hong KongApple Daily, a seguito dell’incontro – pubblicizzato da Lady Gaga stessa su Twitter e Instagram – il Dipartimento della Propaganda e la SARFT (State Administration of Press, Publication, Radio, Film and Television) hanno vietato tutto il repertorio della cantante nella Cina continentale. Ai siti web cinesi è stato intimato di bloccare l’uploading e la distribuzione delle sue canzoni – sebbene fino a martedì molti dei successi più noti fossero ancora disponibili su QQ Music, uno dei siti cinesi più utilizzati per ascoltare musica in streaming – mentre alle agenzie di stampa statali è giunto l’ordine perentorio di criticare aspramente il meeting.
Così com’è stata ripresa dall’Apple Daily, la direttiva recita che «[I media] devono combattere con decisione l’indipendenza del Tibet, e attenersi rigorosamente ai report di CCTV, Global Times, Quotidiano del Popolo e degli altri media centrali». Mentre nella giornata di martedì gli organi d’informazione statali si sono astenuti dal condannare la star-attivista (un articolo sulle reazioni del web cinese pubblicato dal sito indipendente Netease è sparito nel nulla) a rompere il silenzio è stato il Global Times uscito l’indomani con un editoriale dal titolo «Lady Gaga’s meet with Dalai Lama angers mainland fans»; conferma del taglio nazionalpopolare precedentemente impostato dal ministero degli Esteri, che interrogato sulla veridicità delle indiscrezioni aveva risposto in conferenza stampa: «Basta guardare i siti web per vedere quanto l’incontro abbia fatto arrabbiare i netizen». Non capita raramente che sia proprio il popolo cinese a cavalcare l’onda del nazionalismo in difesa della Patria; basta pensare alla reazione indignata della rete ai report faziosi della CNN sulle rivolte tibetane del 2008.
Minimizzando la fama della star, il Global Times spiega che Lady Gaga «nonostante la notorietà di cui gode in Occidente, non ha ancora sfruttato a pieno le potenzialità del mercato cinese. Questo potrebbe averla spinta ad effettuare un incontro di alto profilo con il Dalai Lama, ignorando i sentimenti del pubblico cinese. Il Dalai Lama è una figura sia religiosa sia politica, che deve la sua popolarità in Occidente soprattutto al suo ruolo di "leader-dissidente" e "sabotatore" della Cina socialista». Il quotidiano continua notando che «la trentenne non è necessariamente abbastanza raffinata nella valutazione di questioni politicamente sensibili. Molti cinesi hanno sentito parlare di lei, alcuni amano le sue canzoni. Ma [la cantautrice] non gode di alcun carisma politico o morale nella società cinese. L’unica cosa che guadagnerà da questa vicenda sarà una cattiva impressione e ricordi spiacevoli della Cina». Probabile che già ce l’abbia considerato che è stata sottoposta a censura fino al 2014, in quanto ritenuta una minaccia per la «sicurezza culturale» del Paese.
Nota nella Repubblica Popolare come «Leidi Gaga» («Shocking Gaga») per il suo comportamento sopra le righe, la cantante americana va ad allungare la lista delle star «pro Tibet» bannate dal Partito comunista. Prima di lei Selena Gomez, Bon Jovi, Maroon 5, Bjork e Oasis erano già incappati in una sorte analoga. E non tutti con intenti necessariamente provocatori. Sembra che spesso sia la leggerezza a spingere le celebrità ad incontrare Sua Santità; una figura associata oltremare ad un sentimento pacifista mainstream, nonostante i controversi precedenti che lo hanno visto collaborare con i servizi d’intelligence americani contro l’occupazione cinese del Tibet, negli anni ’50. Da allora Pechino ha continuato a considerare il leader religioso una pedina manovrata dai governi «nemici» per minare l’integrità territoriale della Cina.