La traduttrice e il Nobel

In by Simone

Traducendo Mo Yan, Patrizia Liberati ha costruito con lui un rapporto di stima e confidenza che l’ha portata a volare a Stoccolma e a conoscere anche i sensi di colpa del premio Nobel. Le rane, in uscita per Einaudi, nasce dal complicato rapporto dello scrittore con la Storia. E con gli aborti forzati.
Lo chiama ‘il mitico’. E ogni volta che provo a dirle che vorrei intervistarla, mi dice che è meglio che invece provi a fare qualche domanda a lui, al mitico Mo Yan. Patrizia Liberati ha 52 anni e da 22 vive in Cina. Lavora all’Istituto italiano di cultura, è sposata con un cinese ed è mamma di 3 bambine. Traduce dalle 6:30 alle 8:30 di mattina. Smette quando l’Istituto apre al pubblico e ricomincia il trantran quotidiano. Di Mo Yan sta traducendo Rane, di prossima uscita per Einaudi, ma ha già tradotto Il supplizio del legno di Sandalo, Le sei reincarnazioni di Ximen Nao e Cambiamenti. Non basta. Ha anche tradotto Servire il popolo, di Yan Lianke. E si è occupata, assieme a Barbara Alighiero – l’ex direttrice dell’Istituto di Cultura – dell’ideazione e dell’organizzazione dei convegni letterari italo-cinesi che ogni anno portano scrittori cinesi e italiani a incontrarsi e a confrontarsi su un tema prestabilito.

La prima volta che ha incontrato Mo Yan, è stato in una libreria di Pechino. Era accanto a una persona speciale, Maria Rita Masci, colei che per prima ha portato gli scrittori moderni cinesi in Italia e che è diventata la traduttrice per eccellenza in una situazione di quasi monopolio (ma per mancanza di concorrenza). La copertina del Supplizio del legno di sandalo l’aveva conquistata. E Maria Rita, amica e maestra, aveva fatto il gesto più bello che un’amica e una maestra possano fare: “Tienilo – aveva detto – te lo regalo”.

E da lì è cominciato tutto: la scheda per presentare la traduzione a Einaudi e, insperato, il contratto. Era il 2001 e Patrizia già lavorava in Istituto ma si buttò a capofitto nella traduzione. «Il supplizio del legno di sandalo è il libro che ho trovato più difficile da tradurre. Forse perché stato il primo, rimane in assoluto quello che mi piace di più». È una storia d’amore e di un atroce supplizio immersa nel caos politico di inizio Novecento, quello che precede il disfacimento dell’ultima dinastia imperiale.

Da qui è cominciato il suo lavoro di traduttrice e il suo rapporto con Mo Yan. Con ogni nuovo romanzo sorgevano nuovi quesiti che non avrebbe potuto risolvere se non con l’aiuto dello scrittore. «La prima volta ci incontrammo qui a Pechino, in una sala da tè. Ho portato i miei appunti, e lui pazientemente mi ha risposto passo dopo passo… Una volta mi ha addirittura detto: “se ritieni che questa parte di romanzo sia troppo incomprensibile per un lettore occidentale, tagliala pure”. Io… tagliare il mitico!?». Insomma, le domande erano sempre di più e per comodità si sono cominciati a scrivere le mail. «M’ha sempre risposto, a volte sviscerando a tal punto l’argomento che quasi mi dovevo impegnare a tradurre pure la sua risposta».

Ride Patrizia, certo non le dispiace. Le piace Mo Yan proprio «per lo splendido uso del linguaggio, per le espressioni idiomatiche e anche per quelle profondamente dialettali, probabilmente le più affascinanti da tradurre». Ha saputo del Nobel dalla collega Tiziana, «sempre aggiornatissima sulle notizie e mi fa anche delle versioni per non vedenti. Erano le sette di sera. Poi sono arrivate le telefonate dall’Italia. Gli ho mandato un messaggio con il cellulare di mio marito ché io non ce l’ho». Ora lavora come una matta perché deve consegnare l’ultimo a Einaudi ancora prima del previsto, ma il tempo è sempre quello la mattina presto, prima di cominciare a lavorare. «Per fortuna in quest’ultimo la scrittura è più semplice e la storia più lineare».

Si tratta della complessa storia della zia del protagonista, una levatrice che con l’entrata in vigore della legge sul figlio unico si trova a dover modificare il suo lavoro costringendo le donne ad abortire. Mo Yan ha confessato a Patrizia che la scrittura del libro è stata anche un esercizio di riscatto, l’espiazione di un grande peccato: per non compromettere la sua carriera militare anche lui, dopo la prima figlia, ha chiesto alla moglie di abortire. E non una sola volta. Ora con la nuovissima Cina, tutto questo gli sembra così assurdo. Tanti bambini mai nati quando sarebbe bastato pagare una multa.

E le si illuminano gli occhi a pensare che il Nobel, oltre a essere il riconoscimento pubblico per quello che lei ha sempre saputo essere un grande scrittore, vuol dire anche più attenzione al panorama letterario cinese da parte delle timide case editrici italiane. Cioè spazio per nuove traduzioni e giovani traduttori.

Ma la sorpresa più grande la doveva ancora ricevere. Mo Yan scrive a lei e alla sua amica, maestra e collega Maria Rita Masci: «Cara Mita, questo onore appartiene anche a te e a Patrizia! Grazie ai vostri sforzi nel corso di tutti questi anni ho conquistato una reputazione nel mondo letterario in Italia e anche in molti altri paesi». Così le ha invitate alla premiazione, tutto a spese del mitico. «Perché – spiega Mo Yan per convincerle – se vinco il Nobel, il merito è vostro, dei traduttori». Vorrà proprio dire che Patrizia, la donna che porta sempre i pantaloni, dovrà mettersi in lungo e volare a Stoccolma.

[Scritto per Pubblico; foto credits: dzwww.com]