L’ex leader del movimento Occupy Hong Kong è stato inserito in una lista nera dalla giunta militare Thai su richiesta delle autorità della Cina. Arrivato a Bangkok, dove avrebbe dovuto tenere un discorso in una università, è stato tenuto in stato di fermo e quindi rispedito nell’ex colonia britannica. Mano thailandese, regia cinese, diremmo, parafrasando un vecchio slogan extraparlamentare. Joshua Wong è stato fermato martedì sera all’aeroporto di Bangkok dalla polizia che, dopo alcune ore, l’ha rispedito a Hong Kong, da dove era appena arrivato.
Wong è stato uno dei leader del movimento Occupy Hong Kong di due anni fa, la faccia da copertina – per esempio quella di «Time» – perché ai tempi aveva solo 17 anni. Oggi, 19enne, era stato invitato da attivisti della Chulalongkorn University di Bangkok per tenere un discorso in occasione del 40esimo anniversario di un massacro studentesco, il cui ricordo è considerato sensibile dalla giunta militare che ha preso il potere nel maggio del 2014. Netiwit Chotiphatphaisal, lo studente che aveva contattato Wong, ha dichiarato di ispirarsi a Occupy e di prevedere che un movimento del genere possa svilupparsi anche in Thailandia nei prossimi anni. È stato proprio lui ad attendere inutilmente l’attivista hongkoghino agli arrivi internazionali e a domandare quindi spiegazioni agli agenti. Gli hanno risposto che il governo cinese aveva mandato a quello thailandese una lettera con la richiesta di fermare Wong.
La conferma che Joshua Wong fosse inserito in una lista nera su pressioni di Pechino è arrivata poi dai funzionari dell’immigrazione Thai e quindi dal leader della giunta, Prayuth Chan-ocha, che ha dichiarato ai giornalisti: «I funzionari cinesi ci hanno chiesto di rispedirlo indietro. È affare loro. Non fatevi coinvolgere troppo. Sono tutti cinesi, non importa se di Hong Kong o della Cina continentale».
L’ufficio del Primo ministro ha poi confermato di essere «al corrente del fatto che il signor Wong è stato attivo in movimenti di resistenza contro governi stranieri» e che, «se tali azioni fossero compiute in Thailandia, ciò potrebbero incidere sulle relazioni del Paese con altre nazioni». Il ministero degli Esteri cinese ha dichiarato di «rispettare il modo in cui la Thailandia esercita il controllo dell’immigrazione nel rispetto della legge». Lo scorso anno, all’ex leader di Occupy era stato negato l’ingresso anche dalle autorità malesi, ma in quella occasione era stato messo su un volo di ritorno per Hong Kong quasi subito dopo il suo arrivo a Kuala Lumpur, senza fermo di polizia.
Al suo arrivo nell’ex colonia britannica, dove ad attenderlo c’erano decine di giornalisti e militanti, Wong ha raccontato di essere stato circondato da 20 agenti di polizia e dell’immigrazione che gli hanno sequestrato il passaporto e l’hanno «detenuto» all’interno di una cella presso l’aeroporto Suvarnabhumi di Bangkok. Gli hanno impedito di fare telefonate alla famiglia, ai suoi avvocati o a organizzazioni per i diritti umani. «Non pensavo di poter essere detenuto in un posto che non fosse la Cina», ha commentato. «I funzionari mi hanno spiegato che sono stato inserito in una lista nera».
La vicenda avviene in contemporanea con una visita ufficiale in Thailandia del ministro della Giustizia di Hong Kong, Rimsky Yuen Kwok-keung, che in precedenza aveva escluso il coinvolgimento di Pechino. «Personalmente non credo che una questione del genere abbia bisogno di pressioni internazionali», aveva detto. Ora, l’intero schieramento pan-democratico e indipendentista di Hong Kong, l’opposizione all’interno del Legislative Council, chiede che le autorità locali protestino formalmente con la Thailandia.
Wong ha dichiarato di ritenersi «molto fortunato», di essere stato in grado di tornare a casa, «soprattutto alla luce della scomparsa del Gui Minhai», il libraio di Causeway Bay svanito lo scorso anno nella località turistica thailandese di Pattaya per poi ricomparire nella Cina continentale in stato di arresto.
Non è infatti la prima volta che la Thailandia agisce di concorso con le autorità cinesi e il governo di Prayuth ha già attirato critiche dall’Occidente per essersi inchinato alle pressioni di Pechino in almeno due casi.
Gui Minhai era uno dei titolari di una libreria di Hong Kong che pubblica libri critici nei confronti delle autorità di Pechino. In possesso di un passaporto svedese, era scomparso da Pattaya nell’ottobre de 2015 per poi ricomparire in Cina lo scorso gennaio con una confessione televisiva trasmessa dalla televisione di Stato, Cctv. In quell’occasione dichiarava di essersi consegnato spontaneamente alle autorità cinesi per fare ammenda di un «crimine stradale» commesso anni prima e di sentirsi cinese nonostante il passaporto svedese. È stato poi condannato a due anni di reclusione con sospensione della pena.
L’altra vicenda in cui Bangkok ha compiaciuto Pechino è stata la deportazione in Cina di oltre 100 uiguri – appartenenti all’etnia turcofona e musulmana dello Xinjiang – nonché di due dissidenti che attendevano in Thailandia la concessione di asilo politico in Paesi terzi.