Otto anni fa, all’insediamento del presidente degli Stati uniti c’era solo l’ambasciatore Cui Tiankai. Stavolta c’era il vicepresidente Han Zheng. Una mossa che non nasce per caso, ma che si inserisce in una fase iniziale di “pacifico studio”, favorita da una serie di segnali incrociati
Dalle minacce del 2017 agli “spazi enormi di collaborazione” del 2025. Tra la Cina e Donald Trump sembra scoppiato un improbabile amore. Era difficile prevederlo, dopo che il primo insediamento era stato dominato dalle tensioni, così come il burrascoso commiato del 2021. Il 20 gennaio di otto anni fa, a celebrare l’ingresso di Trump alla Casa bianca c’era solo l’ambasciatore Cui Tiankai. Stavolta, c’era il vicepresidente Han Zheng, il funzionario di più alto grado mai inviato da Pechino. La mossa senza precedenti non nasce per caso, ma arriva dopo che Trump aveva invitato addirittura Xi Jinping. Come prevedibile, il presidente cinese ha declinato, ma inviare Han significa aprire al dialogo. Il vicepresidente è una figura prettamente cerimoniale, ma la sua missione lascia intendere che ci sia la reciproca volontà di esplorare le possibilità di cooperazione a cui ha fatto riferimento Han negli incontri con JD Vance, Elon Musk e gli imprenditori statunitensi. Non a caso, le borse cinesi hanno chiuso ieri in positivo, mostrando ottimismo su quelli che Xi ha definito i “rapporti bilaterali più importanti del mondo”.
Sembra quasi come se ci si fosse improvvisamente dimenticati che fu Trump ad avviare la guerra commerciale e a far arrestare in Canada Meng Wanzhou, la figlia del fondatore del colosso tecnologico Huawei. Un’offesa mai scordata dal Partito comunista, che in quel momento ha capito che Washington non voleva solo riequilibrare la bilancia commerciale, ma fermare e soffocare l’ascesa della Cina. Fu sempre Trump ad accusare Pechino sul Covid-19, cigno nero delle elezioni perse nel 2020 che anche in tempi non lontani ha definito “virus cinese”. Eppure, ora i media di stato della Repubblica popolare scrivono che “i primi passi di Trump sono infinitamente più positivi e collaborativi di quelli di Joe Biden”.
La temporanea e bilaterale amnesia si basa su una serie di mosse di Trump, che ha già lasciato intendere di voler guidare personalmente i rapporti col primo rivale strategico degli Stati uniti. L’ha fatto parlando con Xi già prima dell’insediamento, mentre Biden aspettò diversi giorni dopo l’inaugurazione per farlo. Uno “sgarbo” mai dimenticato, mentre stavolta i commentatori cinesi esaltano la promessa di Trump di “lavorare insieme a Xi per rendere il mondo più pacifico”. Frase che pone i due Paesi sullo stesso piano, si nota in Cina, senza utilizzare lo scarto “ideologico” del confronto tra democrazie e autoritarismo del predecessore, ricevuto da Pechino come la volontà di “dare lezioni” irricevibili.
Trump ha peraltro comunicato al suo team di voler andare in Cina entro i primi cento giorni di mandato, passo mai fatto da Biden nei suoi quattro anni. A Pechino hanno apprezzato lo stop alla messa al bando di TikTok, di proprietà del colosso ByteDance. Il ministero degli Esteri cinese ha affermato che le aziende private possono prendere le proprie decisioni su operazioni e acquisizioni, inedita apertura dopo che sin qui si era sempre negata l’ipotesi della vendita anche parziale dell’app, strategica per i suoi dati e algoritmi. Trump ha mostrato fin qui maggiore cautela anche su Taiwan, che Pechino ha più volte definito la “prima linea rossa” nei rapporti bilaterali. Nel 2016, poco dopo la vittoria alle elezioni, accettò la telefonata di congratulazioni dell’allora presidente taiwanese Tsai Ing-wen. Evento senza precedenti, che fin qui non si è ripetuto col successore Lai Ching-te, che Xi considera un “secessionista radicale”. La delegazione di Taipei presente a Washington è peraltro guidata da Han Kuo-yu, presidente del parlamento e figura apicale del Guomindang, il partito d’opposizione dialogante con Pechino.
Da qui a immaginare una relazione tranquilla, ce ne passa. L’ombra dei dazi incombe, col potenziale di innescare un effetto domino su vari dossier. Ma per ora la Cina e Trump si prendono le misure in una temporanea quiete.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su il Manifesto]
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.