La stretta del governo cinese sui sindacati

In by Simone

Erano stati arrestati nel dicembre 2015 accusati di aver organizzato azioni di disturbo sociale. Si tratta di tre attivisti fermati nell’ambito di una più generale operazione contro le organizzazioni non governative che si occupano di lavoratori. Ieri sono stati condannati, con la pena sospesa, a tre anni di carcere.Si tratta di Zeng Feiyang, Zhu Xiaomei e Tang Huanxing, membri di una Ong abbastanza nota in tema di lavoratori, la Panyu Workers Centre. La loro attività aveva a che fare principalmente con i lavoratori del Guangdong fabbrica del mondo cinese, che da sola produce un quinto delle esportazioni.

Pena sospesa significa che sono formalmente condannati ma non andranno in carcere. Ma per attivisti e sindacalisti significa anche essere costretti a fermare la propria attività sociale, perché dopo la condanna al minimo problema si aprirebbero le porte del carcere.

Avevano aiutato i lavoratori a organizzarsi per chiedere migliori condizioni di vita e soprattutto di salario ed erano stati arrestati con l’accusa infamante di avere organizzato disordini sociali e di aver accettato tangenti e mazzette da ipotetici stati stranieri che avrebbero l’interesse di destabilizzare la Cina.

Utilizzare questi strumenti di accusa – ammessi poi in sede processuale da imputati lasciati in balia della sola accusa e senza alcuna possibilità vera di difendersi – è la «cifra» del governo da parte di Xi Jinping, la cui opera anti corruzione è servita anche per eliminare parecchi nemici politici.

In questo caso non si tratta di bloccare chi mina la sua leadership, quanto fermare sul nascere un potenziale movimento organizzato di lavoratori che potrebbe finire per creare dei problemi sociali in Cina.

L’economia infatti rallenta e non sembra poter più reggere i ritmi degli anni scorsi, mentre il passaggio epocale del paese a un’economia trainata dal mercato interno stenta a decollare. Di questo «passaggio» ne fanno le spese proprio le classi più deboli lavoratori compresi.

Chi tenta di organizzare il discontento, dunque, va punito, subito. I sindacalisti sono tra i più colpiti delle politiche repressive di Pechino. In Cina non sono ammessi sindacati indipendenti ad eccezione della All-China Federation of Trade Union, che però viene spesso accusata – giustamente – di essere filo governativa e di non avere in realtà alcun ruolo di negoziazione o difesa o rivendicazione dei diritti da parte dei lavoratori, specie in tema di aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro.

I tre condannati, in particolare, sono accusati di aver aiutato i lavoratori nella provincia meridionale di Guangdong a organizzarsi per ottenere il pagamento dei salari e dei benefici non pagati in occasione di controversie con i datori di lavoro, ma sono stati condannati per «ignorare le leggi nazionali e aver organizzato manifestazioni di massa che hanno turbato l’ordine sociale».

La sentenza del tribunale arriva nel mezzo di ciò che i gruppi organizzati per i diritti umani e del lavoro hanno definito una campagna «senza precedenti» di arresti di attivisti sindacali, all’interno di un più ampio giro di vite sul dissenso che ha visto centinaia arrestati e decine di imprigionati da quando il presidente Xi Jinping è salito al potere.

La Xinhua ha riportato a suo modo la notizia, sostenendo che i sindacalisti in realtà avrebbero «incitato incitare i lavoratori a colpire, creare un impatto sociale, interferire con le fabbriche e la loro normale produzione, disturbando l’ordine sociale».

Zeng e altri attivisti avrebbero costretto i leader fabbriche alla loro sottomissione e «incitato i lavoratori a circondare le forze dell’ordine, provocando un impatto molto negativo sulla società».

[Scritto per Eastonline]