La storia di L. Un’americana cacciata dal Tibet 2/2

In by Simone

L. è una ragazza statunitense di circa trent’anni. Si è trasferita a Shenzhen a gennaio 2014 per lavorare come insegnante di inglese in una scuola pubblica. Aveva un bell’appartamento. Amava il suo lavoro e aveva un ottimo rapporto con i suoi studenti. A febbraio 2015 L. ha deciso di fare un viaggio in Tibet. Mai si sarebbe aspettata che questa decisione avrebbe di colpo messo fine alla sua nuova vita in Cina. La sua storia in due puntate.
… segue

Mentre I poliziotti raccoglievano tutti i documenti e si preparavano ad andar via, la guida le disse, “Voglio darti un’altra chance. Ne parlerò con il mio capo e tornerò da te domani mattina. Stasera, non scrivere a nessuno, non mandare e-mail a nessuno. Se lo farai ne verremo a conoscenza, e sarebbe una brutta cosa per te. Adesso cerca di dormire.” Quest’ultimo consiglio le sembrò assurdo. Come avrebbe potuto dormire dopo ciò che era successo? Non appena fu rimasta sola in camera, L., incapace ormai di controllarsi, scoppiò in lacrime. Nonostante l’avvertimento della guida, si sentiva così sola e spaventata che scrisse un’e-mail alla madre, raccontandole cosa le era accaduto. La mattina seguente la guida tornò all’hotel e disse a L. che la polizia sarebbe venuta alle 11. Aggiunse che gli altri due membri del gruppo avrebbero continuato il loro soggiorno con un’altra guida.
Sei nei guai dopo quello che è successo?”, L. chiese. “No. I messaggi che hai mandato sono stati scritti prima che ti venissi a prendere,” rispose. “Poi le cose che hai detto ieri hanno aiutato.” Nella lobby dell’hotel L. incontrò i due coreani con cui aveva viaggiato i primi giorni. Non avevano alcuna idea di quello che si era verificato la notte precedente. La ragazza si rese conto che L. stava tremando e le chiese se stesse bene. L. la portò in un angolo più appartato e le raccontò tutto. La ragazza rimase stupefatta. Poco dopo, la famiglia coreana dovette lasciare l’hotel e L. restò sola con la guida. A quel punto, L. fu di nuovo presa dal panico e gli disse che voleva chiamare l’ambasciata statunitense. “Non farlo,” lui la ammonì. “Se chiami l’ambasciata sarà peggio.

Il proprietario del tour operator andò nella lobby per vedere L., dicendole che non poteva stare lì e doveva tornare in camera. L. si rifiutò. Non voleva trascorrere un minuto di più nel posto dove la notte precedente si era verificato l’interrogatorio. Incapace di mantenere la calma, ebbe una crisi di nervi e si mise a piangere. Il proprietario del tour operator, venendole incontro, le prenotò una stanza di lusso, dove rimase mentre aspettava la polizia. La guida tibetana le disse che se aveva fame avrebbe potuto accompagnarla in un posto vicino all’hotel. L. disse di no. Era troppo nervosa per mangiare.
La polizia non si fece vedere fino alle 4 del pomeriggio. La informarono che aveva due possibilità. Una era di andare al confine e prendere un treno, l’altra era di andare in aeroporto e comprare un biglietto per Kathmandu. Il poliziotto tibetano le consigliò di prendere l’aereo perché era stata male e il viaggio in treno sarebbe stato troppo faticoso. L. rispose che non aveva i soldi per pagare un biglietto aereo, visto che aveva già speso 920 dollari per il tour. “Chiamerò il mio capo,” disse il tibetano. “Forse possiamo pagare noi metà del tuo biglietto.” E’ impossibile sapere se quest’offerta fosse dettata da umana compassione, o dal desiderio di liberarsi al più presto di una fastidiosa turista americana che non aveva fatto altro che creare problemi. La guida e I due poliziotti portarono L. all’ufficio di Air China a Lhasa. Comprarono un biglietto aereo da 400 dollari, metà dei quali furono pagati dal governo cinese. Poi ritornarono all’hotel. Prima di partire, i poliziotti diedero a L. un ultimo avvertimento. “Non dire a nessuno quello che è successo, che hai parlato con la polizia e che devi lasciare il Tibet.

L. fu costretta a trascorrere l’ultima notte in Tibet chiusa nella sua stanza d’albergo. La mattina successiva, la guida tibetana la portò in aeroporto, dove prese l’aereo per il Nepal. Nel frattempo, i suoi genitori avevano contattato l’ambasciata statunitense. Al suo arrivo a Kathmandu L. scoprì di aver ricevuto diverse e-mail dall’ambasciata. L. contattò le autorità americane, e la prima cosa che le dissero fu di non tornare nella Cina continentale, ma di andare a Hong Kong e farsi portare lì le cose che aveva lasciato nella suo appartamento a Shenzhen. Successivamente, però, l’ambasciata cambiò idea. Dopo aver ottenuto nuove informazioni, le dissero che le autorità cinesi non volevano pubblicità negativa e che sarebbe potuta tornare nella Cina continentale senza problemi. Il 28 febbraio L. prese un aereo per Hong Kong e da lì si recò a Shenzhen in treno. Non ebbe alcuna difficoltà ad attraversare il confine fra la Cina comunista e l’ex colonia britannica. Terminate le vacanze, L. tornò a scuola e continuò la vita di sempre come se nulla fosse accaduto. Il 21 marzo, L. si recò di nuovo a Hong Kong per incontrare un amico. Dopodiché prese un treno per ritornare a Shenzhen. Giunta alla stazione di confine, diede il suo passaporto all’impiegato dell’ufficio immigrazione. Immediatamente tre poliziotti la circondarono e la condussero in una stanza. L. chiese diverse volte che cosa stesse succedendo. “Non lo sappiamo,” le risposero. Infine, dopo circa mezz’ora, la informarono che il suo visto di lavoro era stato revocato e che “non era più benvenuta in Cina.” L. chiese perché, ma le risposero che non lo sapevano. Domandò se poteva almeno dare le chiavi di casa all’amico che l’aveva accompagnata a Hong Kong. Prima dissero di no, poi, dopo che L. ebbe insistito diverse volte, acconsentirono.

Le autorità cinesi la rispedirono dall’altro lato del confine, ma la polizia di Hong Kong la fermò. La struttura della stazione di confine fra Shenzhen e Hong Kong è simile a quella di un aeroporto, con corridoi che conducono in una sola direzione. Se avesse voluto tornare a Hong Kong, L. avrebbe dovuto prima passare il confine di Shenzhen e poi inoltrarsi nel corridoio che riportava al punto di partenza. Vedendosi respinta anche a Hong Kong, sola su un ponte sospeso sul fiume Shenzhen e non sapendo che fare, L. fu scoppiò in lacrime. “Mi hanno rimandata indietro,” spiegò alla polizia di Hong Kong. “Mi hanno revocato il visto.” Quando le autorità di Hong Kong capirono che cosa era successo, la fecero rientrare e le assicurarono che nell’ex colonia britannica non avrebbe avuto problemi. L. fu costretta a lasciare il suo lavoro a Shenzhen. La sua ex scuola si rifiutò di pagarle gli stipendi che le doveva. Benché li avesse chiamati e pregati diverse volte di darle ciò che le spettava, non ottenne che risposte piene di indifferenza e opportunismo. Per alcuni giorni rimase a Hong Kong, dove poteva finalmente scrivere e dire tutto ciò che voleva. Ma la paranoia che il governo comunista inculca nel popolo cinese si era già impossessata di lei. Solo dopo aver lasciato il suolo della Cina si sarebbe sentita di nuovo libera e al sicuro, disse. Mentre parlava, i suoi occhi erano nervosi ed impauriti. Temeva ancora che qualcuno potesse spiarla, sentire ciò che diceva, e sottoporla ad un altro estenuante interrogatorio. Sul suo volto si leggeva la lotta interna fra il desiderio di dire la verità su ciò che le era stato fatto e la consapevolezza che, solo pochi giorni prima, la libertà di parola che aveva dato per scontata l’aveva resa una criminale, – indifesa, sola e debole, alla mercé del governo cinese. 

[Questo articolo è apparso in inglese per Nanfang]

*Aris Teon ha conseguito una laurea in lingue e culture straniere a Trieste e a Berlino, ha preso la fatidica decisione di iniziare una nuova avventura nell’Estremo Oriente. Ha vissuto a Taiwan e Hong Kong per tre anni, a volte frustrato e confuso, ma sempre pieno di curiosità ed entusiasmo. Sul suo blog  ‘www.my-new-life-in-asia.blogspot.com’ scrive delle sue esperienze e osservazioni. I suoi articoli appaiono regolarmente su ‘The Nanfang’. Ha scritto per ‘L’Indro’ e ‘East Magazine’.