Il congelamento degli aiuti internazionali americani, coordinato dal Dipartimento per l’efficienza governativa di Elon Musk, sta costringendo molte organizzazioni non governative (Ong) a sospendere o interrompere completamente le loro attività di in Cina, dalla difesa dei diritti umani al monitoraggio delle condizioni salariali. I tagli riguardano, tra gli altri, il Dipartimento di Stato, l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) e la National Endowment for Democracy, fondata nel 1983 per contrastare l’Unione Sovietica e l’influenza comunista all’estero. Musk l’ha definita “piena di corruzione” e ne ha chiesto lo scioglimento.
Secondo il Nikkei Asia Review, meno di una settimana dopo l’insediamento della nuova amministrazione, diverse organizzazioni con base in Cina hanno ricevuto un’e-mail dal Dipartimento di Stato che le informava della sospensione immediata dei finanziamenti, chiedendo la cessazione immediata dei programmi interessati dagli aiuti statali americani.
Il congelamento dell’assistenza americana si prefigura come un doppio assist per la Cina. Innanzitutto sul piano internazionale. Già ampiamente presente nel cosiddetto Sud globale – sebbene perlopiù nei panni di creditore/investitore anziché di donatore – Pechino potrà ora presentarsi con maggiore determinazione come partner affidabile. Titolo coltivato nell’arco di decenni promuovendo all’estero progetti economici senza discriminanti politiche nei confronti dei paesi destinatari, molti dei quali governati da regimi autoritari.
Il secondo allungo di Trump è invece interno: l’interruzione del supporto statunitense mette a rischio l’operato di decine di Ong e no profit impegnate a monitorare lo stato dei diritti umani nel paese asiatico. Quel che è peggio il disimpegno statunitense avviene in una fase storica di chiusura per la Repubblica popolare, che dopo la fine della pandemia non è mai tornata completamente alla normalità. Anzi, sembra aver voluto sfruttare le misure sanitarie per aumentare il controllo sulla popolazione, con un occhio particolarmente attento alla società civile e alle aziende straniere. Complice il movente della sicurezza nazionale, impiegato sempre più spesso anche in occidente per giustificare misure di “de-risking”, ormai estese anche agli scambi culturali e accademici. Una situazione che negli ultimi anni ha spinto ricercatori, media, aziende e istituzioni occidentali (persino il Congresso americano), ad affidarsi proprio alla organizzazioni senza scopo di lucro per ottenere informazioni sul paese.
A dicembre, il Bureau of Democracy, Human Rights, and Labor – che difende “la sicurezza americana promuovendo il rispetto dei diritti umani”- aveva chiesto sovvenzioni per programmi cinesi su questioni come la libertà di espressione, le condizioni dei lavoratori, e lo stato di diritto. Gli importi concessi dall’agenzia spaziano in genere dai 500.000 e agli 1,5 milioni di dollari.
A scontare più duramente la scure di Trump saranno soprattutto le piccole realtà, quelle gestite da attivisti cinesi in esilio. Sono loro le organizzazioni più dipendenti dal supporto a stelle e strisce. Trovare benefattori altrettanto generosi non sarà facile. Governi stranieri ed enti privati temono le ritorsioni di Pechino, partner economico tanto importante quanto poco tollerante nei confronti dell’ingerenza politica esterna.
“L’assistenza estera in genere consiste in un aiuto per cause umanitarie, ad esempio il finanziamento per progetti idrici, o il finanziamento di progetti sanitari”, spiega a Gariwo Maya Wang, direttrice di Human Right Watch Cina. “Ma la Cina non è un paese in via di sviluppo e molti governi hanno smesso (o ridotto drasticamente) di fornire quel tipo di aiuti umanitari – aggiunge l’esperta – I gruppi per la democrazia e i diritti umani legati alla Cina hanno tutti sede all’estero perché non possono operare all’interno del paese; tuttavia, gli aiuti esteri sono in genere forniti a gruppi attivi nel paese di riferimento. Per queste ragioni, non ci sono molti interlocutori statali a farsi avanti, nonostante le crescenti richieste della società civile affinché lo facciano”.
Il crowdfunding, d’altro canto, è una strada difficile e rischiosa: negli ultimi anni il controllo del Partito-Stato ha raggiunto la comunità diasporica grazie alle delazioni di agenti prezzolati, ma anche alle denunce di patrioti realmente delusi dalla democrazia occidentale, di cui Washington si è resa portavoce. Almeno, fino all’arrivo di Trump.
Avvalendosi di contatti locali, queste no-profit d’oltremare hanno spesso le migliori competenze linguistiche e conoscitive per interpretare la Cina. Soprattutto da quando nel 2017 una legge ad hoc restringe drasticamente le attività delle Ong straniere (compresi fondazioni, associazioni sociali e think tank) nel paese. Un esempio particolarmente riuscito è China Labour Watch (clw), organizzazione con sede a New York City, che da vent’anni monitora i diritti dei lavoratori cinesi, le condizioni nelle fabbriche e i progressi compiuti nella contrattazione collettiva. Ha uno staff di appena sette persone e un budget di 800.000 dollari l’anno. Ora è sull’orlo del collasso. Circa il 90% dei suoi fondi proveniva dal governo americano. Da quando Donald Trump ha ordinato il congelamento degli aiuti esteri, clw ha dovuto interrompere la maggior parte del lavoro. Il 7 febbraio il fondatore, Li Qiang, ha affermato che i fondi del gruppo dureranno meno di un mese se non verrà ristrutturato rapidamente il bilancio stanziato, che quest’anno doveva aggirarsi a circa 1 milione di dollari. Una fetta consistente del personale dovrà essere messa in aspettativa o licenziata se non arriveranno nuovi finanziamenti.
Anche China Digital Times (CDT) teme “conseguenze gravi” per le proprie attività. Istituita nel 2003 a Berkeley, l’Ong rappresenta una risorsa preziosissima in materia di media e Internet grazie alla pubblicazione bilingue (cinese e inglese) di direttive interne della propaganda statale, nonché all’archiviazione di contenuti censurati sui social cinesi. Con il suo lavoro ha aiutato funzionari e accademici stranieri a studiare il modo in cui il Partito comunista sta cercando di plasmare l’infosfera a livello globale. A febbraio, le autorità canadesi hanno citato CDT tra le fonti utilizzate per indagare su un presunto caso di disinformazione “malevola” che ha colpito l’ex ministra delle Finanze canadese Chrystia Freeland, candidata a succedere al premier Justin Trudeau.
I tagli disposti dall’amministrazione Trump non risparmiano nemmeno istituzioni solide e strutturate, come l’Australian Strategic Policy Institute (ASPI) e Freedom House. L’Ong fondata nel 1941 a Washington, nel 2022 ha inaugurato il China Dissent Monitor, programma mirato a mappare il dissenso in Cina, sia online sia attraverso l’organizzazione di proteste e manifestazioni pubbliche. Al Wall Street Journal, l’organizzazione ha dichiarato che spera di “poter continuare presto a lavorare su questo importante progetto”.
Non è invece chiaro l’impatto per Radio Free Asia, una delle fonti più preziose per capire quanto accade nelle aree remote della Cina occidentale. La storica agenzia di stampa, finanziata dalla U.S. Agency for Global Media (USAGM), vanta una rete di informatori autoctoni di etnia uigura e tibetana che, grazie ai contatti personali, hanno continuato per anni a fare luce sulle ferree politiche etniche in Tibet e sui campi per la rieducazione dello Xinjiang. A gennaio l’inquilino della Casa Bianca ha nominato il conservatore L. Brent Bozell III alla direzione di USAGM. Sebbene non sia ancora tra gli enti colpiti direttamente dalla spending review, l’agenzia è già sulla lista nera di Musk. Contatta da Gariwo, RFA non ha fornito chiarimenti a riguardo.
L’onda d’urto americana arriva fino a Hong Kong, dove la National Endowment for Democracy nel 2020 ha finanziato progetti per un totale di 310.000 dollari. L’anno prima il governo cinese aveva sanzionato la fondazione in risposta all’approvazione da parte del Congresso americano dell’Hong Kong Human Rights and Democracy Act, normativa che impone una revisione periodica dell’autonomia nella regione amministrativa speciale. Secondo Pechino, la NED e la CIA hanno lavorato in tandem per fomentare segretamente le manifestazioni pro-democrazia del 2019. L’ultimo grande movimento di protesta prima che la legge sulla sicurezza nazionale mettesse fine alla libertà di espressione nell’ex colonia britannica.
Di Alessandra Colarizi
[pubblicato su GairiwoMag]
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.