All’ondata di sdegno e orrore che attraversa la società indiana davanti agli stupri di minori, Annie Zaidi prova a fare il punto sul funzionamento dei riformatori e delle case famiglia in India, dove i casi di abusi registrati sono migliaia all’anno. E l’India guarda dall’altra parte.
Avete sentito di quel padre del distretto di Murshidabad che ha ucciso sua figlia? Aveva 10 anni e, secondo quanto appreso, pare si stesse opponendo alla decisione del padre, che la voleva vendere.
Questa non è la norma, lo so bene, ma alcuni padri (o madri) vendono le proprie figlie (o figli) o, addirittura, li ammazzano.
Alcuni semplicemente si lasciano trascinare dagli istinti violenti. E anche se questi incidenti non sono la norma, succedono abbastanza spesso da farci chiedere “Ma che succede qui in India? Qual è il nostro problema?”; domande che si sentono spesso, di questi tempi.
In una chat online in cui si parlava di come prevenire crimini a sfondo sessuale contro minori, Anuja Gupta di RAHI, che lavora con persone sopravvissute ad incesti o abusi, ha spiegato che la soluzione risiede nel problema. “Gli abusi nascono dal silenzio, dal segreto, dall’ignoranza, dalla negazione, dalla vergogna, dallo stigma sociale. Per fermare gli abusi sessuali occorre spazzare via queste pre-condizioni…imparare ad ascoltare e rispettare i bambini”.
Può sembrare una cosa normale da chiedere, rispettare i bambini. Ma uno dei problemi delle culture mainstream in India è proprio il mancato rispetto dei bambini (o delle donne). Li idolatriamo. Li trasformiamo in feticci. Ma, in fondo, consideriamo i bambini come una proprietà. Ci preoccupiamo per loro, ma raramente ci prendiamo la responsabilità del nostro comportamento verso di loro.
Nell’atmosfera di terrore psicologico in cui viviamo, stiamo iniziando a parlare di cose si potrebbe fare per salvare i nostri figli dalla violenza. Potrebbe essere un buon momento per fare mente locale e valutare fatti per i quali siamo tutti responsabili come società, come collettività.
Tra il 2001 e il 2011 sono stati registrati 48.388 casi di stupro di minori. In buona percentuale questi crimini sono avvenuti in “case di osservazione”, centri speciali, case famiglia registrate secondo il Juvenile Justice (Care and Protection of Children) Act.
Uno studio recente dell’Asian Centre for Human Rights si è concentrato su 39 casi di stupro di minori. Undici di questi sono stati denunciati da istituzioni governative, 27 da privati o da case famiglia gestite da Ong.
Ci sono 733 riformatori che ricevono fondi dal Ministry of Women and Child Development (Wcd). Ne esistono a migliaia senza alcuna registrazione o ufficialità. Il rapporto evidenza che sì, il Ministero aveva sollevato il problema di istituti correttivi non registrati, ma che ancora non esiste nessun provvedimento punitivo applicabile in questi casi.
Alcuni di questi bambini sono orfani. Molte sono bambine. Alcuni sono disabili, magari abbandonati. Altri sono vittime di traffici umani. Altri ancora sono stati presi mentre rubavano o chiedevano l’elemosina.
Siamo orripilati e ci indigniamo davanti a bambini stuprati all’interno delle proprie case, ma ci dimentichiamo delle migliaia che subiscono abusi e torture perché noi ce li mettiamo, come società, in quelle case. Siamo sollevati dal fatto che non li abbiamo sotto gli occhi, ai semafori o agli angoli delle strade, ma non vogliamo renderci conto che spesso, negli istituti correttivi, vengono trattati come criminali adulti senza che abbiano fatto nulla per meritarselo.
Tecnicamente ci sono 462 Child Welfare Committees in 23 stati ma, in realtà, le ispezioni ufficiali ai riformatori sono ridotte al minimo. Alcuni stati scoraggiano le cosiddette “visite a sorpresa”.
Nel 2010 il Karnataka ha formato un nuovo committee, con un avvertimento: “i membri non possono visitare istituzioni per la cura dei bambini […] senza aver prima ricevuto il permesso dalle istituzioni stesse”. Parliamo dello stesso Karnataka dove 1.089 bambini (minori di 14 anni) sono scomparsi da 34 case famiglia tra il 2005 e il 2011.
Noi, come società, preferiamo partecipare ai satsang o ai majilis (raduno di fedeli attorno a un leader spirituale, hindu nel caso di satsanga, musulmano in caso di majli, ndt), o vederci tutti insieme per una partita di cricket piuttosto che dedicare il nostro tempo all’ispezione volontaria di case famiglia e scuole.
Ci piace di più raccogliere fondi per un festival spirituale piuttosto che adottare un orfano. O fare donazioni per programmi di counseling ed istruzione gestiti dalle comunità locali.
Credo sia il momento giusto per chiederci come mai lo facciamo. E’ parte della risposta alle domande “Ma cosa succede qui in India? Qual è il nostro problema?”.
[Articolo originale su Daily News and Analysis]
*Annie Zaidi scrive poesie, reportage, racconti e sceneggiature, non necessariamente in quest’ordine. Il suo libro I miei luoghi: a spasso con i banditi ed altre storie vere è stato pubblicato in Italia da Metropoli d’Asia.