Un’applicazione di Amnesty International dice di quali reati potremmo essere accusati in diversi Paesi in base a cosa condividiamo su Facebook. Molti riguardano i diritti e le libertà delle donne. Libertà che in India sono riconosciute per legge, ma minacciate da tradizioni secolari.
“Trial by timeline” è una nuova applicazione sviluppata dalla sezione neozelandese di Amnesty International. Permettere di fare un rapido calcolo sui reati di cui potremmo essere colpevoli in diverse nazioni per il materiale che condividiamo su Facebook.
Io sono stata ritenuta colpevole di “socializzare con un uomo non imparentato” e di consumo di alcool (per alcune foto di feste nelle quali non stavo bevendo). Le “attività sospette” includono due appuntamenti di poesia (ai quali per altro non ho partecipato ma solo risposto che l’avrei fatto) e chiedere il diritto di poter esprimere me stessa.
Sono anche colpevole di aver dichiarato di essere donna. Infine sono colpevole di essere su Facebook. In almeno 40 Paesi potrei essere picchiata, frustata, torturata.
Quando il manganello virtuale ha picchiato, schizzando del giallo sullo schermo nero, ho fatto un salto. Possiamo dire che ora mi sento riconoscente. Godo di alcune libertà. Almeno in India non è un crimine uscire con un uomo che non sia mio parente.
Eppure in India ci sono padri che uccidono le proprie figlie per questo. Mariti, fratelli. Fidanzati che pugnalano le donne che non li vogliono sposare. Estranei o semplici conoscenti che gettano acido sulle donne che non vogliono starci.
Ho riflettuto molto su cosa voglia dire avere libertà per legge se poi la cultura le nega. Cosa vuol dire a esempio: “Sono libera di scegliere la mia professione?”
Per alcuni lavori occorre stare fuori fino a tarda notte, come nel giornalismo. A Delhi una delle reazioni di riflesso agli attacchi contro le donne è stato chiedere ai datori di lavoro di accompagnare quelle che lavorano anche dopo il tramonto. So che questo farebbe automaticamente di me un problema per l’azienda. Le piccole società eviterebbero così di assumere donne. È questo che si intende per libertà?
Ora siamo indignati per i bimbi che sono violentati. Non a scuola o sul bus, ma nei loro stessi vicinati. A casa. Eppure ci rifiutiamo di riconoscere che questo è il risultato di un processo che abbiamo permesso per secoli, negando alle donne adulte i propri diritti sessuali ed economici. Ci rifiutiamo di vedere quanto la violenza sia legata alla libertà. Governi, leader religiosi, multinazionali, tutti infliggono violenze per loro beneficio.
I corpi mutilati e menomati non sono di aiuto alla società. Servono solo alla paura. Uno Stato può terrorizzare le donne dicendo che meritiamo di essere frustate se parliamo con un amico. Può dire che non può fare niente per prevenire attacchi che noi stesse per prime abbiamo provocato.
Per troppo tempo abbiamo tollerato la violenza contro le donne spacciandola per cultura e religione. Tolleriamo che a scuola non si parli di sesso, ma che persistano gli spazi segregati nella speranza di reprimere la curiosità. E tolleriamo politici che pubblicamente danno la colpa alle donne per le violenze. Non soltanto li tolleriamo, li eleggiamo.
Loro lo dicono perché pensano di esprimere un’idea comune o almeno il sentimento della maggioranza della popolazione. In democrazia è difficile replicare. Se abbiamo eletto questi uomini (e queste donne) allora la maggioranza degli indiani ritiene che le donne – la loro sessualità, la loro esistenza – debbano essere incolpate di crimini orribili.
Ora che i bambini sono diventati vittime di crimini sessuali non sappiamo più chi incolpare. Per abitudine, come i pappagalli, continuiamo a prendercela con il corpo delle donne, con la loro femminilità.
Perché se non lo facessimo dovremmo ammettere che la colpa sta da qualche altra parte. Forse con una battaglia millenaria per possedere le donne? Forse con la nostra tolleranza verso qualsiasi atto contro la libertà delle donne?
[Articolo originale su Daily News and Analysis]
*Annie Zaidi scrive poesie, reportage, racconti e sceneggiature, non necessariamente in quest’ordine. Il suo libro I miei luoghi: a spasso con i banditi ed altre storie vere è stato pubblicato in Italia da Metropoli d’Asia.