La memoria di Taiwan è su un’isola verde: l’ex carcere di Green Island

In Asia Orientale by Redazione

Storia dell’ex carcere di Green Island (Taiwan) e di Yueh-tao, che ricorda. Reportage a cura di Serena De Marchi

Trentatré chilometri d’acqua separano Taitung, città costiera nella parte sudorientale di Taiwan, da Green Island (Lüdao 綠島), piccolo atollo di origine vulcanica che deve il suo nome al verdeggiare delle piante tropicali che ne compongono la morfologia terrestre. Questa ricchezza naturalistica (le sue acque coralline, in particolare) ne fanno oggi un’apprezzatissima meta vacanziera. Eppure, tra le foreste di palme e i faraglioni che svettano dal mare lungo la costa, si ergono, nascosti da un alto muro di cemento, i resti di un complesso penitenziario, che oggi è un museo. Tra gli anni Cinquanta e gli Ottanta del secolo scorso, migliaia di prigionieri sono passati di qui, condannati dal partito di stato Kuomintang (KMT) per i loro presunti crimini politici.

Durante i trentotto anni in cui a Taiwan fu in vigore la legge marziale, il KMT perseguitò tutti quei cittadini (taiwanesi e non) che riteneva nemici del partito, specialmente quelli con simpatie comuniste. I nazionalisti crearono un vero e proprio clima di terrore (il periodo infatti fu in seguito noto come Terrore bianco) basato sulla diffidenza e la delazione. Tutti erano potenzialmente dei criminali: bastava aver pronunciato una frase interpretabile come una critica al partito, e che questa fosse stata origliata dal vicino di casa o dal collega di lavoro che la riportasse alle autorità. La gente spariva da un giorno all’altro: padri, zii, fratelli venivano sequestrati in segreto dalla polizia e mandati in carcere. Tanti di questi finirono a Green Island. Si stima che durante il periodo di attività il complesso penitenziario abbia ospitato complessivamente dalle 20 alle 30 mila persone1.

Questo luogo racconta un pezzo della storia recente di Taiwan che è stata a lungo un argomento tabù, e di cui solo recentemente si è cominciato a parlare a livello istituzionale. La memorializzazione del carcere di Green Island fa parte di un più ampio processo di democratizzazione del paese, che passa anche per la discussione pubblica del periodo del Terrore bianco.

Il museo

L’ex struttura penitenziaria oggi è un memoriale; si chiama Green Island White Terror Memorial Park (白色恐怖綠島紀念園區) e fa parte della rete dei National Human Rights Museum cui appartiene anche il Ching-Mei White Terror Memorial Park di Taipei, altro ex-complesso detentivo degli anni della legge marziale.

Il carcere sorge a fianco di un piccolo parco affacciato sull’oceano, al cui centro campeggia una struttura circolare sorretta da colonne a cui si accede attraverso una passeggiata a forma di spirale discendente. È lo Human Rights Monument, progettato da Han Baode nel 2006 per commemorare le vittime e i sopravvissuti del campo. Lungo il muro che accompagna la discesa sono intagliati i nomi dei prigionieri e la data dell’inizio e fine della loro prigionia. Il monumento è una sorta di introduzione al carcere, ne segna il confine d’ingresso impostando l’attenzione del visitatore sulla sofferenza delle vittime e dei loro famigliari.

L’entrata del museo è a pochi metri di distanza; il complesso è diviso, tramite alti muri di cemento con filo spinato, in due aree: da una parte il New Life Correction Center (新生訓導處), lo spazio carcerario principale dal 1951 al 1965. Qui ci sono le celle dei prigionieri, gli alloggi delle guardie e diversi spazi aperti utilizzati per l’esercizio fisico e l’addestramento dei detenuti. Dall’altra parte c’è la cosiddetta Oasis Villa (綠洲山莊), attiva dal 1972 al 1987. La struttura principale è l’edificio degli otto trigrammi (八卦樓), formato da quattro corridoi di celle disposti a X e convergenti in una torre centrale.

Tutti questi luoghi oggi sono diventati spazi espositivi: le celle si possono visitare e sono accompagnate da targhe esplicative che descrivono la vita dei detenuti e le loro attività. Altri cartelli ripercorrono la storia politica dell’epoca, e alcuni raccontano di certi detenuti speciali, tra cui, ad esempio, lo scrittore Bo Yang, condannato a 12 anni nel 1968 per aver pubblicato una vignetta satirica su Chiang Kai-shek.

Celle dei prigionieri. Edificio degli otto trigrammi.

 

Cortile esterno, Oasis Villa. Sulle pareti dell’edificio si leggono alcuni slogan: “Viva la Repubblica di Cina” e “Viva i Tre Principi del Popolo” (di Sun Yat-sen).

Da una parte, il complesso museale apre letteralmente uno spazio in cui il visitatore può finalmente vedere con i suoi occhi la crudeltà che è stata qui perpetrata solo pochi decenni fa, che ha traumaticamente segnato due generazioni di taiwanesi e la storia del paese intero. D’alto canto, in quanto prigione-museo, il complesso di Green Island si inserisce nel filone del “prison tourism”, a sua volta sottocategoria del “dark tourism”2, che riguarda quei luoghi che intercettano visitatori in virtù del loro essere stati teatri di terribili atrocità. Il rischio per questi siti è quello di presentare le loro storie come beni di consumo, rispondendo più a certi impulsi voyeuristici piuttosto che stimolare una vera riflessione storico-politica.

Green Island è tutte e due queste cose. L’estetica militare del campo, i diorami, le ricostruzioni di alcuni spazi detentivi (come ad esempio il bunker di cemento che fungeva da cella di isolamento a scopo punitivo e in cui il visitatore è invitato a entrare e per un momento mettersi nei panni dei prigionieri): tutti questi elementi contribuiscono a ricreare per chi visita un’esperienza addomesticata, protetta, del carcere. E tuttavia rimane, e va preservato, il ruolo documentale del luogo, simbolo di un’esperienza storica che deve continuare a essere raccontata.

Ricordare

Cosa significa ricordare un passato col quale solo di recente si è iniziato a fare i conti? Come integrare nella sfera pubblica il dolore privato, le esperienze delle vittime, le colpe dei responsabili? Se nella Cina continentale questa fase di autoanalisi è ancora lontana (a livello istituzionale; a livello di discorso culturale anche in Cina abbondano le narrazioni – letterarie, cinematografiche, artistiche – delle ferite storiche) a Taiwan il processo di istituzionalizzazione della memoria del suo passato autoritario è già stato avviato, seppur con i tutti i limiti e le criticità del caso.

Oasis Villa. Muro di delimitazione del campo con filo spinato in cima

La memorializzazione di luoghi come questo è stata fortemente voluta dal Democratic Progressive Party (DPP, il partito attualmente al governo) per una questione anche di inquadramento politico, che è basato (anche) sull’opposizione al KMT, il partito responsabile di quelle persecuzioni, incarcerazioni ed esecuzioni sommarie, che nel tempo si è radicalmente riformato e oggi esiste all’interno di un sistema democratico. È stato sotto la presidenza Tsai, ad esempio, nel 2018, che è stata istituita la Transitional Justice Commission, un’agenzia governativa indipendente con il compito di indagare l’operato del KMT durante gli anni del Terrore bianco, di fare chiarezza storica su quanto accaduto e, qualora possibile, ricompensare i cittadini dei torti ingiustamente subiti.

Non è un caso, poi, che l’ex prigione sia stata inglobata in un più ampio progetto museale, il National Human Rights Museum, che ha “diritti umani” nel nome. Come osserva Kirk Denton nel suo libro The Landscape of Memory: The Politics of Museums and Memorial Culture in Post-Martial Law Taiwan, il concetto di diritti umani è stato ed è un nodo centrale nella politica e nell’identità culturale taiwanese all’indomani della legge marziale, nonché punto fondamentale della piattaforma programmatica già ai tempi del movimento politico Dangwai3, poi confluito nel DPP. Autopresentarsi come il paese in cui i diritti umani vengono celebrati e rispettati – a cui vengono addirittura intitolati musei – è un modo per Taiwan per inserirsi, a livello diplomatico, in un concerto globale di nazioni che questi diritti li riconoscono. In questo modo viene anche sottolineata una certa distanza – politica, ideale e culturale – dalla Cina continentale, che ha una visione di diritti umani tutta sua e certamente poco aperta a pubblici dibattiti sull’argomento.4

Targa all’ingresso del museo.

L’isola e lo specchio

Sua madre si chiama Yueh-tao, che è anche il nome di una pianta, Alpinia zerumbet, che cresce abbondante su Green Island: i prigionieri la usavano per intrecciare corde. Suo padre e suo zio sono stati tra quei prigionieri. L’artista Huang Li-hui 黃立慧 sceglie il parlatorio, lo spazio in cui chi è dentro e chi è fuori dal carcere può guardarsi attraverso un vetro e parlarsi tramite un telefono, come luogo per ospitare la sua istallazione, The B-side of Yueh-tao (月桃B), che già nel nome rivela una dedica alla madre. L’opera è una delle tante che partecipano al 2021 Green Island Human Rights Art Festival, organizzato dal National Human Rights Museum e visitabile da maggio a settembre (le visite nel 2021 sono state molto ridotte, il museo è stato chiuso per tre mesi per via del coronavirus). Lo slogan di questa edizione è “假如綠島是一面鏡子

Through the Reflection of Green Island” e le opere, tra cui installazioni video e audio, arte partecipata e performance art, riflettono sulla memoria della prigionia e del periodo del Terrore bianco a Taiwan, trasformandola in uno specchio, una lente attraverso cui riflettere il presente.5

The B-Side of Yueh-tao è distribuita su due spazi. Nel lato A la parte del parlatorio all’epoca accessibile a chi veniva a visitare i detenuti le storie sono scritte sui vetri: quelle di suo zio materno, internato a Green Island negli anni Cinquanta, di sua madre Yueh-tao che gli scrive una lettera inaspettata, di suo padre Ying-wu, prigioniero anche lui.

The B-side of Yueh-tao, Huang Li-hui. Lato A. Sui vetri sono scritte le storie dei membri della famiglia dell’artista.

The B-side of Yueh-tao, Huang Li-hui. Lato B. Decine di vasi di yueh-tao (alpinia zerumbet) riempiono la stanza.

Attraversiamo una porta e siamo nel “lato B”, quello dove sedevano i detenuti. La stanzetta è stata allestita con decine di vasi di piante, tutte yueh-tao. Accanto agli apparecchi telefonici originali, sono stati aggiunti dei telefoni finti. Il cartello vicino al finto telefono dice di alzare la cornetta. Parte una voce registrata: è quella di Li-hui, che parla al telefono con Yueh-tao. La figlia domanda alla madre di raccontarle del periodo in cui suo fratello e suo marito erano a Green Island.

Li-hui: Ho trovato delle foto a casa, mi ricordo che tu e papà ci dicevate che erano state scattate durante il nostro viaggio a Green Island e Orchid Island. Perché facemmo un viaggio di famiglia a Green Island all’epoca?

Yueh-tao: Perché tuo zio c’era stato come prigioniero per tanti anni, tuo padre pure, e io volevo vedere com’era. Tu avevi forse tre o quattro anni, tua sorella era ancora più piccola, perciò pensammo di portare anche voi.

[…]

Li-hui: Ho chiesto anche a papà di raccontarmi le impressioni di quel viaggio, e anche lui, come te, mi ha detto che non c’era granché da vedere sull’isola.6

Yueh-tao racconta e i suoi ricordi non sono precisi, confonde una persona o una data con un’altra, qualche dettaglio rimane fuori fuoco. Li-hui avrebbe potuto chiedere a suo padre di raccontarle della sua esperienza di prigioniero a Green Island, o a suo zio. Invece è la madre che interroga, la sua assenza è lo specchio attraverso cui l’artista guarda la storia della sua famiglia e del suo paese. Li-hui raccoglie e registra la memoria personale di sua madre, la manipola, la mescola alla sua e la rende pubblica.

Connessioni

Huang Li-hui ci fa vedere come funziona la memoria, che è fallace, imperfetta, perché umana, e gli umani dimenticano e ricordano selettivamente. L’artista prende la storia di sua madre e la ritaglia, la incolla su uno schermo diverso, e condivide tutto noi, che la guardiamo. Questo lavoro di ricontestualizzazione narrativa non mira a rispondere a domande esistenziali o risolvere contese politiche, ma contribuisce ad aprire i confini del discorso sui traumi del passato, in un modo che mette al centro la relazione: tra madre e figlia, tra vittime e sopravvissuti, tra chi c’era e chi è venuto dopo. Su queste connessioni transgenerazionali, transnazionali, vive la memoria storica viene mediata, negoziata, dibattuta. E così la storia di Yueh-tao diventa la storia di Green Island, che è la storia di Taiwan, e anche un po’ nostra.

Di Serena De Marchi

1 Kirk Denton, The Landscape of Historical Memory. The Politics of Museums and Memorial Culture in Post-Martial Law Taiwan (Hong Kong: HKU Press, 2021): 100.

2 Per un approfondimento sul “dark tourism” rimando al volume di John Lennon e Mark Foley, Dark Tourism: The Attraction of Death and Disaster (London: Continuum, 2000).

3 Letteralmente “fuori dal partito” – è stato un insieme di diversi gruppi politici accomunati dalla loro opposizione al KMT

4 Kirk Denton, The Landscape of Historical Memory. The Politics of Museums and Memorial Culture in Post-Martial Law Taiwan (Hong Kong: HKU Press, 2021): 89-112.

5 Il sito del festival è visitabile qui: https://greenislandartfest.nhrm.gov.tw/

6 Trascrizione di un estratto del dialogo telefonico tra Li-hui e sua madre, parte dell’opera The B-side of Yueh-tao. La traduzione è della sottoscritta. L’intera opera è disponibile sul sito di Huang Li-hui: https://lhuang1112.wixsite.com/lihuihuangmandarin/bsideofyuehtao