"Il progetto che avevamo messo a punto per non fare nulla tutta la vita era quello: diventare punk. I punk più famosi della Cina!" Così nel 2007 gli Smegma Riot partono per La lunga marcia tour. China Files vi regala un estratto del libro e il trailer del documentario che li segue attraverso la Cina.
Guardai Carletto. Sorrideva quieto. Rimasi in silenzio con il cellulare poggiato all’orecchio. Una goccia di sudore mi scese lungo la tempia. La voce di “Polpetta”, dall’altro lato del telefono, mi incitava ad una risposta che non avevo.
Indecisionismo, ovvio. Carletto era pronto.
Lui sapeva suonare la chitarra.
“Ok”, risposi flebile, “di’ pure che accettiamo.”
Il taxi verde metallizzato si fermò davanti a un edificio di una decina di piani. La donna che ci accompagnava, una cinese cicciottella di una quarantina d’anni, continuava a tergiversare parlando del più e del meno.
Io e Carletto scendemmo dall’auto e aspettammo che la donna pagasse. Il militare al cancello, riconosciuta la nostra accompagnatrice, ci lasciò passare sorridendo. Ci condussero all’interno.
Con Carletto si continuava a scherzare per alleggerire la tensione. Ma la tensione per cosa?
Io ero un cantante punk, il cantante degli Smegma Riot!
Questa volta era diverso: abbisognavano di un duo acustico. Partecipavo per i trecento kuai che ci avevano offerto. Mi sarebbero serviti per una settimana di vita nella ridente Kunming. Ci condussero in un largo corridoio, dove cercammo con lo sguardo il multisala che avrebbero dovuto inaugurare.
“Da questa parte”, disse la donna, “di qua, di qua”.
Le luci sul soffitto e la scenografia spiegarono più di mille parole. L’aiuto regista si fece avanti per presentarsi e affidò nelle mani di Carletto la chitarra avvolta in una custodia leopardata.
“Fa pendant con il tuo perizoma…”, gli dissi.
Come per magia la chitarra fu collegata all’amplificatore.
“Sentiamo questa canzone”, ci dissero sorridendo “e ricordate che avete 3 minuti e mezzo- 4 minuti, non di più”.
Sapevamo di dover suonare ad un’inaugurazione per una decina di minuti e avevamo preparato cinque canzoni per evitare di essere presi a pesci in faccia. Adesso ci dicevano che ne potevamo suonare una sola. La decisione fu obbligata. Ci saremmo esibiti con il nostro cavallo di battaglia.
Presi la nota con calma e, forse per la prima volta nella mia vita, l’azzeccai. Io sto bene, dei Cccp, l’avevo cantata un milione di volte, ma quella era la prima volta che riuscivo a sentire con chiarezza la mia voce. Ripensai a ciò che mi aveva detto Carletto la sera prima.
“Per un buon duo acustico c’è bisogno di due cose. Una bella voce e una buona chitarra.”
Forse ci avrebbe salvato la seconda. La prima non l’avevamo affatto.
La voce tacque, la chitarra anche. Avevamo finito. Il brusio che si alzò da quel pubblico di addetti ai lavori ci preoccupò. Temevamo per il danaro, dell’arte ci interessava poco.
“Scusate”, disse l’aiuto regista, “siete bravi, ma non si potrebbe cambiare canzone? Questa è un po’ triste, noi cercavamo qualcosa di più allegro…”
Avevamo un’altra opportunità. Surfing Bird sarebbe stata l’ultima canzone che avremmo voluto suonare, ma non avevamo altro in repertorio. Come per incanto, ripresi la nota, o ci andai molto vicino. Le loro facce erano soddisfatte, ma qualcosa ancora non andava.
“Ne facciamo una lenta?”, chiesi io.
Carletto partì con la sua lenta schitarrata, e io intonai Ricominciamo di Adriano Pappalardo. La nostra accompagnatrice si sbizzarrì nel fare foto. Io dimenticai le parole originali del testo, sostituendole con alcune prese a caso, concentrandomi sui tempi.
Non avevo il coraggio di guardare Carletto in faccia. Le note si fermarono e qualche timido applauso partì dagli spalti ancora vuoti che di lì a poco avrebbero ospitato il pubblico.
L’aiuto regista si avvicinò e si complimentò con noi.
“Però”, ci disse insoddisfatto, “noi ci aspettavamo una canzone italiana che facesse un po’ lalalalalala… una canzone un po’ più allegra…”
Il panico. Le altre due canzoni che avevamo preparato erano sullo stesso stile di quelle già cantate. Nulla che avrebbe potuto soddisfarli. Ci scambiammo uno sguardo. Un lampo di genio, un fulmine.
Carletto aveva iniziato a suonare qualcosa con ritmo ska e stavamo preparandoci a rifarne qualcuna di quelle già fatte, ma con un ritmo differente.
“Facciamo…”, dissi guardandolo trionfante, “facciamo Fiki Fiki…”
Carletto rimase folgorato e accennò subito il riff di quella canzone. Non cantai bene, né presi la nota, ma i cinesi erano contenti.
“Questa, questa, questa…” dissero in coro alla fine.
Perché dobbiamo fare questa? Non l’abbiamo nemmeno mai provata. Carletto, con voce sicura, mi tranquillizzò. Stavamo per scendere dal palco, quando l’aiuto regista si avvicinò.
“Non preoccupatevi”, ci rassicurò, “non dovete essere nervosi, ma ricordatevi che siamo in diretta!”
La mia faccia, di solito rossa, diventò d’un tratto cadaverica. Non guardai Carletto, ma credo che anche lui cambiò colore.
“Ah, benissimo”, risposi, “non preoccupatevi, lo abbiamo già fatto.”
Ci avviammo fuori. Dovevamo fumare una sigaretta per allentare la tensione.
Erano le 16 e 30 circa, e due ore dopo saremmo apparsi su un canale regionale dello Yunnan. Quanti milioni di persone si sarebbero sbellicate dalle risate davanti a noi? Lo Yunnan fa quasi più abitanti dell’Italia.
Ci chiesero il nome della canzone. Carletto mi fissò di nuovo come il giorno precedente. Con gli occhi neri, profondi.
“Come si chiama la canzone?”
Eh già, bisognava trovarle un nome, e trovarlo in fretta, poiché gli autori del programma dovevano scrivere un testo per i conduttori.
“Ah, certo”, feci io, “il nome della canzone è…”
Come si fa a inventare tutto nel giro di pochi secondi? Sentivo i neuroni spegnersi. Il buio. Avevamo già sfruttato i semplici “ti amo” per le canzoni precedenti.
“Nel momento in cui ti guardo!”, urlò gioioso Carletto, “nel momento in cui ti guardo!”, ripetè.
Era deciso Fiki, Fiki in Cina si sarebbe chiamata così.
Ci posizionammo dietro una delle tende di scena. Trovai una sedia in un cumulo di roba utilizzata per qualche scenografia e la diedi a Carletto, cercandone un’altra per me. Una signora si fece avanti.
“Ve la do io, una sedia”, mi sembrava che avesse detto, ma non ne ero sicuro dato che ero parecchio confuso. La seguimmo. La porta di fronte a me era aperta.
Sul palco, il conto alla rovescia era partito. Infilai la testa nella porta aperta, seguito da Carletto, che come me non sapeva cosa fare. Le urla delle ragazze che si cambiavano fu estasiante.
Non si erano ancora tolte nemmeno un capo di abbigliamento, ma urlavano come stuprate da un immaginario fallo straniero. Ritirammo la testa chiedendo scusa.
Con Carletto ci sedemmo e cominciammo a esprimer giudizi sui corpi delle ballerine. “Questa è troppo magra, questa ha le gambe troppo lunghe, e questa ha le tette troppo piccole”.
Era sabato sera. Le sette e trenta post meridiane. Avete idea di quante persone possano essere sintonizzate su quel canale di sabato sera, e a quell’ora? Nemmeno io.
Ci chiamarono. Era il nostro momento. Io continuavo a ripetere il primo verso. Lo avevo ripetuto di continuo, senza sosta, dal momento in cui avevano scelto la canzone.
E ogni volta avevo chiesto a Carletto se avessi preso la nota o meno e lui, ogni volta, mi aveva ripetuto “certo”. Fu nel momento in cui stavamo per salire sul palco che mi sorse il dubbio.
“Scusa”, gli chiesi mentre imbracciava la chitarra, “ma è possibile che abbia sempre preso la nota?”
“Che faccio?”, rispose sorridendo, “Ti dico che non l’hai presa prima di cominciare a esibirci di fronte a chissà quanti milioni di persone?”
Non faceva una grinza. Strinsi il microfono più forte che potei e salii sul palco. Ero pronto? E Carletto? Avevo capito era che eravamo in diretta tv e non avremmo avuto modo di ricominciare se qualcosa fosse andato storto.
Le luci di scena cominciarono ad abbrustolire il cerone che avevo addosso. Il resto è leggenda.
Distrutto, mi recai al bancone dello Speak Easy. Ci andavo tutte le sere. Chiesi la solita birra al solito cameriere. Lui, consegnandomela, mi chiese qualcosa che non capii. Lo pregai di ripetere.
“Oggi eri tu al match?”, chiese lui.
Non avevo giocato a pallone, ma lui intedeva dire competizione. Lo scoprii in quel momento. Senza saperlo, avevamo partecipato a una competizione e, senza esserci nemmeno preparati, eravamo arrivati terzi. “Oh, madre mia, la civiltà!"
*Gli Smegma Riot saranno presto di nuovo in Cina. A maggio, allo Zebra Festival. Intanto potete seguirli qui e qui. E potete acquistare Punk Road in Cina anche online.